domenica 23 ottobre 2016

Celeste Ingrao: un “noi” che non c’è più

 

di Celeste Ingrao, per lo speciale di facciamosinistra! – 18 ottobre 2016
NOI. Noi che eravamo al Circo Massimo ai tempi di Cofferati. Noi che le abbiamo provate tutte: i girotondi, il popolo viola… Noi che abbiamo votato per l’Ulivo, e un po’ ci piaceva un poco no, ma insomma era pur sempre il nostro governo. Noi che eravamo in piazza perché “se non ora quando?”. Noi che quando Alemanno si è preso Roma ci veniva da piangere e magari abbiamo pianto davvero. Noi che ci siamo fatte non so quante primarie. Noi che abbiamo festeggiato per Pisapia e per il referendum sull’acqua. Noi che stavamo con “Italia Bene Comune” perché in fondo Bersani…
Noi che quella sera del febbraio 2013 ci siamo accorti che non avevamo capito niente.
Noi che non siamo più un noi.
Noi che eravamo comunque sicuri, nelle occasioni importanti, di trovarci comunque sempre dalla stessa parte. E che ora ci interroghiamo incerti su amici e compagni.
Noi che eravamo il “popolo del centrosinistra”.
Il popolo del centrosinistra che non esiste più (ne ha scritto molto bene alcuni giorni fa Giovanni Paglia). Morto, finito, cancellato.
Il referendum, con la sua scelta secca, mostra con insolita chiarezza questa rottura. Finisce per importare poco, allora, persino il merito della questione. Restano solo quel SI e quel NO. Io sono qui, tu sei di là.
Se non si capisce la profondità e la radicalità di questa rottura – e anche il dolore e il lutto e la rabbia che l’accompagnano – non si capiscono i toni aspri e a volte violenti della campagna elettorale. Non si capisce perché cadano nel vuoto i tanti appelli alla moderazione: abbassate i toni per favore, niente insulti, basta darsi del traditore, basta allarmismi. In fondo, è solo un referendum.
Non siamo arrivati a questa divaricazione per il capriccio di un gruppetto di estremisti, né per l’antipatia che Renzi suscita, né per l’ostinazione nostalgica di un manipolo di dirigenti in odor di rottamazione. E’ una rottura che è maturata nel tempo, sulla politica e sulle cose. Quando Renzi ha cancellato l’articolo 18, quando è passata sulla testa di insegnanti e studenti la “buona scuola”, quando Marchionne è diventato un punto di riferimento .. Quando una parola fumosa come meritocrazia ha sostituito uguaglianza.
Allora, d’accordo, non è giusto dare a Benigni del “traditore”, ma c’è per certo un pezzo di sinistra che si è sentito “tradito”, abbandonato, non più rappresentato. E che non ci sta a un “cambiamento” che finora ha voluto soprattutto dire arretramento.
Sarà possibile, in un futuro più o meno prossimo, ricomporre questa rottura? Dal punto di vista umano e delle relazioni, probabilmente sì, anche se ci vorrà molto tempo per riconquistare il rispetto reciproco e riconoscere come “diverso” chi eravamo abituati a considerare compagno e fratello.
Ma dal punto di vista politico l’ipotesi di ricostruire un nuovo “campo allargato” dei progressisti non mi sembra avere basi concrete. Dietro alla retorica del cambiamento di chi “da sinistra” oggi sostiene, più o meno convintamente, il SI, si cela infatti una posizione sostanzialmente conservatrice: la convinzione che nulla di sostanziale possa essere mutato nella società e nei rapporti di forza che la regolano. La convinzione che la partita sia ormai chiusa e che sia solo possibile sperare in piccoli aggiustamenti e puntare a difendersi dal “peggio”: fermare la destra xenofoba, bloccare il populismo grillino.
Con chi ha maturato questa rassegnata convinzione avremo probabilmente ancora tante battaglie da fare insieme. Per i diritti, per la tolleranza, per l’accoglienza. Ma non è lì il futuro della sinistra. Il futuro della sinistra, se un futuro sapremo costruire, è oltre. Oltre quel “campo” , che già, quando ancora “noi” credevamo di essere forti e vincenti, si era inaridito. Oltre un “noi” ormai esaurito, per imparare a parlare ai tanti – troppi – che non credono più che la politica possa dare risposte. Ai tanti e alle tante a cui nulla importa del nostro saperci guardare solo dentro, delle nostre diatribe autoreferenziali e delle nostre nostalgie.
Se il popolo del centrosinistra non esiste più, c’è un popolo della sinistra da costruire. Dobbiamo almeno provarci. Guardando avanti non indietro.

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