la Repubblica
8 novembre 2014 -
L’accelerazione
impressa alla sua azione e, soprattutto, alle sue parole dal presidente
del Consiglio- segretario del Pd richiede qualche riflessione sul modo
in cui si va configurando il sistema politico italiano e sulla cultura
che sostiene i suoi mutamenti. La più evidente riforma è quella
incarnata dallo stesso Renzi, per il modo in cui definisce il suo
rapporto con i cittadini, che assume tratti simili a quelli descritti in
un libro dedicato al capo e alla folla da Gustave Le Bon. Renzi declina
questo rapporto diretto nel linguaggio attinto dal mondo digitale e
parla di “disintermediazione”, ma la sostanza è quella. Si consegna
all’irrilevanza tutto ciò che non è immediatamente riconducibile al
consenso personale e alla sua proiezione sociale, com’è accaduto quando
al milione di persone presenti a piazza San Giovanni si è contrapposto
lo sguardo ostentatamente rivolto solo agli altri milioni di italiani
(lo aveva già fatto Craxi contrapponendo le sue modeste percentuali
parlamentari al consenso di cui diceva di godere nel Paese). Non è certo
un caso se nelle analisi di commentatori tutt’altro che ostili alla
linea del presidente del Consiglio siano cominciati ad apparire
riferimenti ad atteggiamenti definiti plebiscitari. E non dimentichiamo
che nella “democrazia plebiscitaria”, ampiamente studiata, si ritrovano
anche quei tratti autoritari visibili nel modo liquidatorio con il quale
Renzi si rivolge a critici ed avversari.
È vero che stiamo
vivendo un tempo in cui le nuove tecnologie dell’informazione e della
comunicazione hanno prodotto effetti significativi sull’organizzazione
politica e sociale (ne scrivo da una ventina d’anni). Ma la
disintermediazione non significa che l’unica via politica sia quella
della cancellazione di ogni entità che si manifesta tra i luoghi del
potere e la generalità dei cittadini. Se soggetti collettivi continuano a
manifestarsi nella società, possiamo eliminarli con una parola? E
bisogna riflettere sul fatto che, indeboliti o scomparsi alcuni degli
storici mediatori sociali, altri ne sono comparsi al loro posto, a
cominciare dagli onnipotenti motori di ricerca e dalle reti sociali.
Questa logica si
insinua in modo sempre più pervasivo in ogni luogo, e in modo
particolarmente aggressivo nella materia del lavoro. Quando ci si
rivolge agli imprenditori dicendo di averli liberati dell’articolo 18
dello Statuto dei lavoratori, si dice molto di più, com’è stato evidente
nelle parole pronunciate alla Leopolda. Dal rapporto tra imprenditore e
lavoratori non deve soltanto scomparire l’ingombro del sindacato, ma
l’indebita presenza del giudice. Qui la disintermediazione investe un
elemento fondativo della civiltà giuridica e restituisce una inquietante
attualità ad una vecchia espressione — «la democrazia si ferma ai
cancelli dell’impresa ». Si fa divenire l’ingiustificato licenziamento
un atto legittimo, che non può trovare compensazione nella promessa
pubblica di intervenire a sostegno dei licenziati. Vale pena di
ricordare la storia del mugnaio di Sans-Souci, che alla prepotenza
dell’imperatore Federico contrapponeva l’esistenza di giudici a Berlino.
Dobbiamo rinunciare alla garanzia dei diritti, travolta da una logica
economica che riconosce come regola solo quella che essa stessa pone?
Questo non sembra un
buon viatico per la costruzione di un “partito della nazione”. E
tuttavia, poiché questo sta accadendo, diventa più urgente tornare alla
configurazione complessiva che così assume il sistema politico. Se il Pd
dimagrisce, liberandosi dalle clientele, è cosa buona. Altro è il suo
trasformarsi in una struttura che si dirama nei più diversi centri del
potere, in presenza mediatica nella quale possa riconoscersi il maggior
numero possibile di persone più che in vero soggetto collettivo (un
altro caso di disintermediazione?). Ma la vera forza del Pd, riassunto
nella persona del suo leader, sta nell’insistita affermazione secondo la
quale ad esso e al suo governo «non v’è alternativa».
Qui è la sostanza del
problema: le dimissioni della politica che è, in primo luogo,
costruzione continua di alternative. Questa non è colpa di Renzi, che
persegue i suoi obiettivi e cerca di sfruttare al massimo la condizione
presente. È la registrazione dello sfascio di una destra mai costituita
come tale, fondata com’era sulla figura di Berlusconi; di un Movimento
5Stelle che ha appena mostrato capacità di cogliere occasioni
parlamentari, e però deve mostrare di saperla trasformare in incidenza
costante sulle dinamiche politiche; dell’impossibilità di pensare il Pd
di Renzi come partito “di lotta e di governo”.
Come funziona un
sistema politico senza vera opposizione? Nel modo in cui sta funzionando
quello italiano. Poiché si possono sterilizzare con astuzie varie le
opposizioni interne e esterne, ma non cancellare il conflitto,
l’opposizione si fa tutta sociale. Ecco la ragione del nuovo
protagonismo del sindacato, soggetto sociale per definizione, che trae
nuova forza dal dato materiale della disoccupazione e delle
diseguaglianze crescenti e da quello politico dall’attacco esplicito ai
diritti del lavoro. Ecco il motivo dell’insofferenza aggressiva di Renzi
che costruisce nemici per azzerare confronto e dialogo.
Arriviamo così al punto
essenziale. A destra l’opposizione è sopraffatta da una sostanziale
convergenza con l’azione di governo. E il resto, quello che possiamo
ancora chiamare sinistra? Qui dev’essere sciolto il nodo di una politica
di sinistra capace di essere in sintonia con una società certamente
cambiata, ma la cui novità non può consistere, come si cerca di fare,
nel respingere sullo sfondo dignità, libertà, eguaglianza, solidarietà,
perché sono ancora questi i principi che meglio colgono le difficoltà e i
conflitti di oggi.
Le diverse sinistre,
interne e esterne ai partiti, hanno finora inseguito formule e costruito
aggregazioni casuali. Non sono state capaci di presentarsi con una
identità definita, che può essere costruita solo attraverso una cultura
politica rinnovata. Che non è impresa impossibile, se si riflette sul
molto lavoro fatto in sedi diverse e da soggetti diversi: una nuova
visione complessiva dei diritti fondamentali, dove quella del lavoro è
inscindibile dal rispetto pieno di una persona riconosciuta nella sua
libertà, nell’accesso alla cultura, nella garanzia della salute; le
critiche dell’austerità di molti economisti, che coglie la necessità di
una politica dominata dall’economia; la ristrutturazione degli
ammortizzatori sociali nella prospettiva di un reddito garantito; le
elaborazioni su beni comuni e servizi pubblici, che rischiano d’essere
travolti dalla logica del fai da te, ben rappresentata dagli 80 euro
alle neomamme al posto di asili; le proposte sui nuovi rapporti tra
democrazia rappresentativa e partecipativa; la solidarietà tra persone e
generazioni; l’attenzione concretamente rivolta a povertà e illegalità.
Perché a sinistra non è stata finora fatta una riflessione complessiva
su ciò che essa ha sparsamente prodotto?
E vi è l’Europa. Renzi
dice che questa è la vera partita. Ma la sua presidenza dell’Unione non è
stata segnata da una vera iniziativa sul tema della riforma delle
istituzioni. Oggi si riscopre l’Europa attraverso la Carta dei diritti
fondamentali, invano invocata in questi anni (anche su questo giornale).
Si ricorda il suo articolo 30 sui licenziamenti ingiustificati, ma si
deve andare oltre, agli articoli 31 e 34, che parlano di condizioni di
lavoro giuste e eque, di garanzia dell’esistenza dignitosa, con una
eloquente sintonia con l’articolo 36 della nostra Costituzione, che
vuole garantita «l’esistenza libera e dignitosa», tutte norme che
rendono ineludibile il tema del reddito garantito. In questi anni
l’Europa ha cancellato la Carta, che pure ha lo stesso valore giuridico
dei trattati, ed ha costruito una “controcostituzione” economica che
annulla tutto il resto. L’Italia ha seguito questo cattivo esempio,
abbandonando progressivamente la parte della Costituzione dedicata a
principi e diritti. Ricostruire una rinnovata politica costituzionale
non è solo il compito di una opposizione di sinistra, ma il fondamento
essenziale d’un governo democratico.
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