martedì 26 novembre 2013

Qualche riflessione sul tema della "violenza di genere"

 Di Maria Giuseppina Fusco

Nella Giornata mondiale contro la violenza sulle donne, ho sfogliato i giornali alla ricerca di qualche articolo più consonante con le mie riflessioni. Non ne ho trovati. Troppa stramaledetta retorica. Né ho voglia di mettermi a fare io la retorica dell’antiretorica. L’unico articolo che mi ha strappato un sorriso ed un sia pur parzialissimo consenso è stato quello di Gilioli…nel quale si invita a “Parlare ai maschi, ma ai peggiori” e si ricorda Antanas Mockus, che quando era sindaco di Bogotà aveva pensato ad una sorta di ‘telefono azzurro’ per i maschi tentati dalla violenza. Farli parlare, ascoltarli, aiutarli a superare il momento critico. Mockus pensava cose del genere e le faceva pure: cose contro la logica apparente, oggetto di irrisione da parte dei ‘benpensanti’ , ma mirate ad un punto cruciale del problema più di tante leggi minacciose e repressive. Anch’io ho la tentazione di sorridere all’idea del ‘telefono azzurro’: un cerottino su una ferita slabbrata e profonda. Ma se non hai altro…I maschi che violentano sono persone che vivono in un rapporto di frustrazione-proprietà con l’altro sesso. Malattia dalla quale non sono certo esenti le donne. Che però non violentano. Si tratta comunque, scrive Gilioli, di “persone che non sono state educate a rapportarsi consensualmente e liberamente con l’altro sesso e a vivere il sesso in modo diverso da quello con cui si nutre l’animale affamato. Persone che probabilmente alla propria frustrazione sessuale ne assommano altre”. Gilioli suggerisce che sia la scuola a provvedere … “ andare oltre, dice Gilioli, cambiare i valori …..puntare verso una società in cui la sessualità viene insegnata fin dalle scuole dell’obbligo non solo con il racconto del semino e dell’ovetto, ma soprattutto in tutte le sue componenti psicologiche e relazionali, che sono alla base del rispetto per se stesso e dell’altro. Alla base, quindi, di una buona vita sessuale. Per tutti: maschi, femmine, gay e ogni altro orientamento possibile” . Ma io penso che prima della scuola venga la famiglia. E penso che non possa esistere una educazione sessuale a se stante, che prescinda dall’educazione tout court. L’educazione alla vita. Ad una vita pienamente umana. D’altronde, sia la scuola sia la famiglia stanno dentro la società. E la società è gravemente malata. Ne ha tanti di mali, ormai cronicizzati. Forse il più grave si chiama consumismo. E se i nostri figli crescono educati al consumismo, respirandolo in tutti i luoghi in cui avviene la loro crescita, dobbiamo sapere che il consumismo porta con sé la reificazione delle persone, la loro trasformazione in cose. Da calpestare quando non danno più il piacere del consumo proprietario.

Stop violence against women - basta violenze alle donne

giovedì 14 novembre 2013

Comunicato stampa


Giudice Di Matteo, Il Treno Delle Donne in difesa della Costituzione è al fianco per sostenerla in questa difficile battaglia.
Ci rivolgiamo

All’Associazione Nazionale dei Magistrati, per il tramite della quale, vogliamo far arrivare al giudice Nino Di Matteo la nostra piena solidarietà e vicinanza, a fronte delle minacce di morte ricevute dal mafioso Riina.
L'Associazione del Treno delle Donne è impegnata nella difficile battaglia in difessa della Costituzione e dei principi in essa contenuti e nella difficle battaglia in difesa della legalità e della Giustizia uguale per tutti, garantita dalla Costituzione.
Non permetteremo e non tollereremo che un criminale come Riina che ha fatto della violenza e dell’ignoranza una scelta di vita possa lanciare minacce al giudice Di Matteo.
Giudice Di Matteo, Lei non è solo.
Tanti cittadini e tanti giovani che hanno ripudiato la violenza e l’illegalità sono al suo fianco, continui a fare il suo lavoro, sapendo che noi siamo al suo fianco.
In tanti, convinti e senza paura.
La presidenza dell'Associazione TDC

lunedì 11 novembre 2013

ntervista a Jean Ziegler: povertà e globalizzazione

 Di seguito l'intervista del sociologo svizzero e consulente Onu Jean Ziegler rilasciata nel 2005 al giornalista Giuseppe Accardo durante la presentazione del suo ultimo libro “ L'impero della vergogna” al canale televisivo francese TV5

[01/08/2007]

Traduzione dal testo francese di Manuel Antonini

D. Il suo libro si intitola L'impero della vergogna. Qual è questo impero? Perché “della vergogna”? Qual è questa vergogna?

Nelle favelas del nord del Brasile, capita alle madri, la sera, di mettere dell'acqua nella pentola e di infilarci delle pietre. Ai loro figli che piangono per la fame, spiegano che “presto la cena sarà pronta...”, sperando che nel frattempo i ragazzi si addormentino.
Provi a misurare la vergogna provata da una madre davanti ai suoi figli vittime della fame e che lei è incapace di nutrire.
L'ordine omicida del mondo – che uccide attraverso la fame e l'epidemia 100.000 persone al giorno – non provoca solamente la vergogna tra le sue vittime, ma anche fra di noi, occidentali, bianchi, dominatori, che siamo i complici di questa ecatombe, coscienti, informati e, tuttavia, silenziosi, vigliacchi e paralizzati.
L'impero della vergogna? Ecco ciò che potrebbe essere questo impero generalizzato del sentimento di vergogna provocato dall'inumanità dell'ordine mondiale. Infatti, egli rappresenta l'impero delle multinazionali private, dirette dai cosmocrati (cosmocrates). Le 500 più potenti tra queste l'anno scorso (2004 n.d.r.) hanno controllato il 52% del prodotto mondiale lordo, ossia di tutta la ricchezza prodotta sul pianeta.

D. Nel libro lei parla di “violenza strutturale”. Che cosa significa?

Nell'impero della vergogna, governato da pochi ben organizzati, la guerra non è più episodica, è permanente. Non costituisce più una crisi, una patologia, bensì la normalità. Non equivale più all'eclisse della ragione, come affermava Horkheimer, ma è la ragione d'essere dell'impero.
I signori della guerra economica hanno messo il pianeta in scacco. Attaccano i poteri normativi degli stati, contestano la sovranità popolare, sovvertono la democrazia, devastano la natura, distruggono gli uomini e le loro libertà. La liberizzazione dell'economia, la mano invisibile del mercato sono la loro cosmogonia; la massimizzazione del profitto, la loro pratica.
Chiamo violenza strutturale questa pratica e questa cosmogonia.

D. Parla anche di una “agonia del diritto”. Che cosa intende dire con questa espressione?

Ormai la guerra preventiva senza fine, l'aggressività permanente dei signori, l'arbitrio, la violenza strutturale regnano senza ostacoli. La maggior parte delle barriere del diritto internazionale affondano. L'Onu stessa è esangue. I cosmocrati sono al di sopra della legge.
Il mio libro è il racconto del crollo del diritto internazionale, citando numerosi esempi tratti direttamente dalla mia esperienza di consulente speciale delle Nazioni Unite per il diritto all'alimentazione.

D. Lei considera la fame come un'arma di distruzione di massa. Quale soluzione suggerisce?

Con il debito internazionale, la fame è l'arma di distruzione di massa che serve ai cosmocrati per stritolare – e per sfruttare – i popoli, specialmente nell'emisfero Sud del mondo. Un insieme complesso di misure, immediatamente realizzabile e che descrivo nel libro, potrebbe rapidamente mettere un termine alla fame. E' impossibile riassumerle in una frase.
Una cosa, però, è certa: l'agricoltura mondiale, nello stato attuale della sua produttività, potrebbe soddisfare il bisogno di cibo in un numero doppio rispetto all'umanità presente oggi nel mondo. Non esiste alcuna fatalità: la fame è una questione che riguarda l'uomo.

D. Certi paesi sono oppressi da un debito che lei definisce odioso. Che cosa intende dire con la formula “debito odioso” e quale può essere una soluzione?

Il Rwanda è una piccola repubblica di 26.000 km2, posta sulla cresta dell'Africa centrale, che separa le acqua del Nilo e del Congo e coltiva the e caffè. Da aprile a giugno del 1994, un genocidio terribile, organizzato dal governo hutu alleato alla Francia di François Mitternad, ha provocato la morte di oltre 800.000 uomini, donne e bambini tutsi (e hutu moderati n.d.r.). I macheti che servirono per i massacri sono stati importati dalla Cina e dall'Egitto, e finanziati, fondamentalmente, dal Crédit Lyonnais. Oggi, i sopravvissuti, dei contadini poveri come Job, devono rimborsare le banche e i governi creditori perfino dei crediti che sono serviti per l'acquisto dei macheti dei genocidari.
Ecco un esempio di debito odioso. La soluzione passa per l'annullamento immediato e senza compromessi o, per cominciare, da un esame del debito, come suggerito dall'Internazionale socialista o come ha fatto in brasile il presidente Lula, per rinegoziarlo in seguito voce per voce. In ogni voce ci sono infatti elementi delittuosi – corruzione, eccesso di fatturazione, etc. - che devono essere ridotti. Delle società internazionali di esame, come PriceWaterhouseCooper o Ernst&Young, possono farsene carico, come fanno ogni anno con le verifiche dei conti delle multinazionali.

D. Lei cita più volte il presidente Lula da Silva come un modello. Che cosa della sua azione le inspira questa considerazione?

Provo a volte dell'ammirazione e dell'inquietudine considerando gli obiettivi politici e l'azione del presidente Lula: dell'ammirazione perché è il primo presidente brasiliano ad aver riconosciuto che il suo paese conta 44 milioni di cittadini gravemente e permanentemente malnutriti e ad aver voluto mettere un termine a questa situazione inumana; dell'inquietudine, perché con un debito estero di 235 miliardi di dollari Lula non ha i mezzi per porre fine a questa situazione.

D. Nel suo libro parla anche di una “rifeudalizzazione del mondo”. Cosa vuol dire?

Il 4 agosto 1789, i deputati dell'Assemblea Nazionale francese hanno abolito il regime feudale. La loro azione ha avuto una eco universale. Bene, oggi, noi assistiamo a un formidabile ritorno indietro. L'11 settembre 2001 non ha solamente fornito a George W. Bush l'occasione di estendere l'impero degli Usa sul mondo, ma l'evento ha anche giustificato la messa in scacco dei popoli dell'emisfero Sud per conto delle grandi società private transcontinentali.

D. Nel testo fa molto spesso riferimento alla Rivoluzione francese e a certi suoi protagonisti (Danton, Babeuf, Marat...): in cosa crede questa possa avere ancora qualcosa da apportare, due secoli dopo e in un mondo molto differente?

Basta leggere i testi! Il “Manifeste des Enragés” di Jacques Roux fissa l'orizzonte di qualsiasi lotta per la giustizia sociale planetaria. I valori fondatori della repubblica, o meglio, della civilizzazione tout court, risalgono all'epoca dei Lumi. Oggi l'impero della vergogna distrugge persino la speranza di concretizzare questi valori.

D. Accusa anche la guerra globale contro il terrorismo di togliere le risorse necessarie ad altri combattimenti più importanti, come quello contro la fame. Lei pensa che il terrorismo sia una falsa minaccia, coltivata da qualche stato? Se sì, che cosa glielo fa credere? Pensa inoltre che questa minaccia non sia reale o meriti un trattamento differente?

Il terrorismo di stato di Bush, Putin, Sharon è altrettanto detestabile del terrorismo dei gruppi jihadisti o di altri pazzi sanguinari di questo tipo. Sono due facce di una stessa barbarie. E sono reali sia l'una che l'altra, poiché sia Bush che Ben Laden uccidono. Il problema è sradicare il terrorismo: non può avvenire che con uno sconvolgimento totale dell'impero della vergogna. Solo la giustizia sociale planetaria potrà tagliare ai jihadisti le loro radici e privare i lacchè dei cosmocrati dei pretesti fondanti le loro risposte.

D. Nel 2002, lei è stato nominato consulente speciale dell'Onu per il diritto all'alimentazione. Quali riflessioni le ha ispirato questa missione?

Il mio mandato è appassionante: in totale indipendenza – responsabile davanti all'Assemblea generale dell'Onu e alla Commissione dei diritti dell'uomo – devo rendere valido giuridicamente, attraverso il diritto statuario o consuetudinario, un nuovo diritto dell'uomo all'alimentazione. E' un lavoro di Sisifo! Avanza millimetro dopo millimetro. Il luogo centrale di questa lotta è la coscienza collettiva. Per molto tempo la morte degli esseri umani a causa della fame è stata tollerata in una sorta di normalità congelata. Oggi, è considerata intollerabile. L'opinione pubblica fa pressioni sui governi e sulle organizzazioni (WTO, FMI, Banca Mondiale etc.) affinché misure elementari siano prese per sconfiggere il nemico: riforme agrarie nel terzo mondo, prezzi adeguati pagati per i prodotti agricoli del Sud, razionalizzazione dell'aiuto umanitario in caso di improvvise catastrofi, chiusura della Borsa delle materie prime agricole di Chicago (che specula sui principali alimenti), lotta contro la privatizzazione dell'acqua etc.

D. Nel suo libro appare come un difensore della causa altermondialista, come un portavoce di questo movimento. Come mai interviene raramente nelle manifestazioni “alter” e che il movimento non vi considera generalmente come un intellettuale altermondialista?

In che senso? Ho parlato davanti a 20.000 persone al "Gigantino" di Porto Alegre nel gennaio del 2003. Mi sento come un intellettuale organico della nuova società civile planetaria, dei suoi molteplici fronti di resistenza, di questa formidabile fraternità della notte. Ma resto fedele ai principi dell'analisi rivoluzionaria di classe, a Jacques Roux, Babeuf, Marat e Saint-Just.

D. Sembra che lei attribuisca tutti i drammi del mondo alle multinazionali e ad una manciata di stati (Russia, Usa, Israele...): non è un po' riduttivo?

L'ordine del mondo attuale non è solamente omicida, è anche assurdo. Uccide, distrugge, massacra, ma senza altra necessità che la ricerca del massimo profitto per qualche cosmocrate ossessionato dal potere e da un'avidità illimitata.
Bush, Sharon, Putin? Dei lacchè, degli ausiliari. Aggiungo un post-scriptum su Israele: Sharon non è Israele. E' la sua perversione. Michael Warshavski, Lea Tselem, i “Rabbini per i diritti dell'uomo” e tante altre organizzazioni di resistenza incarnano il vero Israele, il suo avvenire. Meritano tutta la nostra solidarietà.

D. Crede che la morale abbia il suo posto nelle relazioni internazionali, che sono attualmente piuttosto dettate dagli interessi economici e geopolitici?

Non c'è scelta. O si sceglie per lo sviluppo e l'organizzazione normativa o si sceglie per la mano invisibile del mercato, la violenza del più forte e l'arbitrio. Potere feudale e giustizia sociale sono radicalmente antinomici.
“In avanti verso le nostre radici” esige il marxista tedesco Ernst Bloch. Se noi non restauriamo con tutta urgenza i valori dei Lumi, la repubblica, il diritto internazionale, la civilizzazione come noi li abbiamo costruiti negli ultimi 250 anni sono destinati a essere ricoperti, inghiottiti dalla giungla.

D. Da quando i talebani sono hanno lasciato il governo dell'Afghanistan, il Medio Oriente sembra essere attraversato da un'ondata di democratizzazione più o meno spontanea (elezioni in Afghanistan, in Iraq, in Palestina, apertura delle presidenziali ad altri candidati in Egitto...). Come giudica tutto questo? Crede che la democrazia possa essere esportata in questi paesi? O ritiene piuttosto che siano condannati ad avere regimi dispotici?

Non si tratta di esportare la democrazia. Il desiderio di autonomia, di democrazia, di sovranità popolare è consustanziale all'essere umano, quale che sia la regione del mondo dove egli è nato. Il mio amico e grande sociologo siriano Bassam Tibi vuole vivere in una democrazia e ne ha diritto. Ora, da oltre trent'anni, vive in Germania , esiliato dalla dittatura terribile che imperversa nel suo paese.
Elias Sambar, scrittore palestinese, un altro mio amico, ha diritto a una Palestina libera e democratica, non a una Palestina occupata, né ad una vita sotto la ferocia dei fondamentalisti islamici.
Tibi, Sambar ed io vogliamo la stessa cosa e ne abbiamo diritto: la democrazia. Il problema: la guerra fredda, la strumentalizzazione dei regimi al potere da parte delle grandi potenze ed infine la vigliaccheria dei democratici occidentali, la loro mancanza di solidarietà attiva e reale, fanno in modo che i tiranni del Medio Oriente, dell'Arabia Saudita, dell'Egitto, della Siria, dei paesi del Golfo, dell'Iran hanno potuto durare fino ad oggi.

domenica 10 novembre 2013

Poteri deboli: chi comanda in Italia?

  l’ultimo numero della rivista “Formiche”, che volentieri segnalo e consiglio ai miei lettori.

Qualche settimana fa, l’Epresso titolava il copertina “Qui non comanda più nessuno” e l’articolo correlato partiva dalla constatazione del declino di tutti quei soggetti che per decenni hanno retto il potere in Italia (Vaticano, partiti, Sindacati, Confindustria, la grande finanza, le imprese multinazionali con targa tricolore, la massoneria…). Soggetti che ancora esistono, ma assai rimpiccioliti ed in via di ulteriore ridimensionamento. Donde la diagnosi di alcuni intervistati riflessi nel titolo di copertina: il potere in questo paese si sta polverizzando, siamo all’entropia di sistema. È una analisi giusta?
In parte si, ma si trascura che parallelamente al declino dei poteri tradizionali ed autoctoni ne stanno subentrando di nuovi e di esterni: se Unicredit ed Intesa declinano, oggi un ruolo di punta lo sta rivestendo la Cassa Depositi e Prestiti, se Governo e Parlamento si stanno riducendo ai minimi termini, c’è una ipertrofia della Presidenza della Repubblica, se il potere politico declina, da venti anni, quello giudiziario, la Banca d’Italia o la Consob occupano uno spazio maggiore. Ma soprattutto pesano sempre più poteri esterni come la Bce, la Nato, le agenzie di rating,  il governo tedesco ecce ecc.
Siamo di fronte ad un processo storico di vasta portata che sta trasformando radicalmente il potere nel nostro paese, rendendolo meno indipendente, meno capace di autodeterminazione.
In qualche modo è un effetto del processo di globalizzazione che mina il potere degli stati nazionali, ma solo di quelli più deboli, come storicamente è il nostro nel quale è endemica la tentazione a risolvere i problemi di casa chiamando in soccorso qualche straniero. Già negli anni settanta, fu evidente il fallimento (se si preferisce: il successo solo parziale) del tentativo di Cuccia di costruire attraverso il “salotto buono” di Medio banca un capitalismo “nazionale”. Figurarsi oggi che le frontiere nazionali non esistono più, quantomeno in campo finanziario. Molti soggetti “forti” si svincolano dal cortile di casa per guardare alle vaste praterie del mondo globalizzato: la Fiat veleggia oltre oceano, le Assicurazioni Generali guardano all’Est europeo, la Telecom (con il tacito consenso del governo) finisce in mani spagnole, prima di finire a chissà chi.
Questo è il secondo urto della globalizzazione: il primo mandò in frantumi la prima Repubblica, il secondo manda in pezzi la seconda Repubblica, ma questa volta non sappiamo se ce ne sarà una terza e che caratteri avrà.
Questa “evaporazione” dei poteri nazionali registra il fallimento senza scusanti delle classi dirigenti italiane, che si sono rivelata palesemente inferiori al loro compito. Il cuore di questo è stato tutto politico: alla classe politica della prima repubblica se ne sostituì una nuova portata sugli scudi dalla (pur comprensibile) rivolta populista contro la corruzione e che venne irresponsabilmente indirizzata dal Pds nel devastante referendum contro la proporzionale. Da quello sciagurato evento presero il volo tanto il processo di de-costituzionalizzazione dell’ordinamento, quanto l’affermazione di una classe politica nella stragrande maggioranza populista ed impreparata.
Fini, Bossi, Berlusconi, Di Pietro ed il Pds incarnarono forme diverse di populismo che, in tutte le sue manifestazioni, non si sottrasse a quella straccioneria culturale e politica che è la sigla stilistica di ogni populismo. Una classe politica sempre più becera ed impreparata si impossessò del potere gestendolo nel peggiore dei modi e con un tasso di moralità pubblica anche inferiore a quello dei propri predecessori. Tutto venne centrato sulle “caratteristiche del leader”, sullo spirito di appartenenza che non aveva più il legante ideologico di prima, ma solo lo spirito gregario e la tifoseria da stadio sostituì il dibattito politico. Le posizioni istituzionali vennero occupate e gestire come armi da brandire contro il “nemico”: il governo serviva a fare favori agli amici, il Parlamento a fare leggi ad personam, le nomine negli enti –more solito- servirono a collocare gli amici, la Rai era preda del vincitore di turno. Le privatizzazioni dovevano servire ad abbattere il debito statale, servirono solo a fare qualche favore ad amici degli amici, vennero svendute ed il debito, non solo non venne decurtato che in misura insignificante, ma riprese a crescere allegramente.
L’adesione all’Euro venne fatta senza calcolarne le conseguenze, ma, almeno offrì una occasione con i bassissimi tassi di interesse sul debito per almeno sei-sette anni. Occasione persa dall’allegra gestione della finanza che vedeva gonfiare i costi della politica, gli stipendi dei manager pubblici, le opere pubbliche sbagliate. Si accrebbe il decentramento regionale, con il risultato della disastrosa gestione della Sanità in Lazio, Lombardia, Calabria…
Della prima repubblica si era ereditato il malcostume, ma s’era persa quella “professionalità politica” che, pure con i suoi difetti, aveva assicurato un minimo di capacità strategica. Oggi, come ammette uno degli intervistati dell’Espresso, si fa fatica a trovare un parlamentare in grado di scrivere da solo un emendamento.
Dopo venti anni di un simile esercizio del potere politico c’è da meravigliarsi del fatto che ci sia ancora qualcosa in piedi. Ma la classe politica non è la sola che meriterebbe di sedere sul banco degli imputati di un tribunale popolare. Anche il ceto manageriale (pubblico e privato senza distinzioni) non ha scherzato ed i casi Alitalia e Telecom ne sono prova troppo eloquente perché se ne debba dire.
Delle responsabilità del ceto intellettuale ed accademico non dico neppure perché non è elegante sparare addosso alla croce rossa, ricordo solo che, quando ci fu l’esigenza di un “governo dei tecnici” che mettesse insieme “la crema” dell’intellettualità del paese, quello che venne fuori fu quell’Armata Brancaleone del governo Monti.
Ora la seconda ondata della globalizzazione, indotta dalla crisi, manda tutto in pezzi: non ci sottrarremo al destino di decadenza e di servaggio se prima non daremo luogo ad un processo alle classi dominanti nazionali. Metaforicamente parlando, un processo severo al limite della ferocia.
Aldo Giannuli

martedì 5 novembre 2013

Caso Ligresti: Anna Maria Cancellieri, un Guardasigilli ricattabile?

A dimostrazione di come in Italia, una volta toccato il fondo, sia sempre possibile mettersi a scavare arrivano le annunciate non dimissioni di Anna Maria Cancellieri. La ministra della Giustizia a poche ore dall’arresto di un noto pregiudicato per tangenti (don Salvatore Ligresti) ha telefonato alla sua compagna. E, dopo essersi scusata per non aver chiamato prima (il minimo, visto che lo storico mazzettaro era sotto inchiesta da mesi per falso in bilancio e aggiotaggio), ha espresso solidarietà alla donna. Poi, per la gioia degli azionisti della FonSai rovinati dalle scorribande dell’indagato e della sua famiglia, le ha ripetuto per due volte che quanto era accaduto non era “giusto”. Infine ha chiuso e ha detto: “Qualsiasi cosa io possa fare, conta su di me, non lo so cosa possa fare, però guarda son veramente dispiaciuta”.
In qualunque democrazia degna di questo nome una telefonata come questa sarebbe bastata da sola per spingere qualsiasi governo a dare alla Cancellieri il ben servito. Qui no. Nel Belpaese arriva invece la fiducia a prescindere ancor prima che la Guardasigilli chiarisca dettagliatamente in Parlamento i suoi rapporti con il pregiudicato.
Vedremo cosa accadrà alle Camere (poco immaginiamo). Per ora si può solo dire che, pure dopo le numerose interviste, i fati da spiegare restano ancora molti. Qualche esempio: don Salvatore era il proprietario della casa dove viveva e vive il figlio della ministra ed era l’azionista di maggioranza della società per cui il giovane manager lavorava (ne è uscito con una liquidazione da 3,6 milioni di euro). Tutto questo ha influito sulla decisione della Guardasigilli di chiamare una persona che non sentiva da mesi? E ancora: perché la Cancellieri dopo l’inchiesta Mani Pulite che aveva portato in carcere sia Salvatore che suo fratello Antonino (quest’ultimo ha confessato tangenti alla Guardia di Finanza per 150 milioni di lire) ha continuato a frequentarli? Era opportuno e giusto per un funzionario dello Stato?
Non pensa la ministra che così facendo ha permesso a don Salvatore di sostenere, in un interrogatorio di pochi mesi fa, di averla sponsorizzata con Silvio Berlusconi in occasione di un passaggio importante della sua carriera prefettizia? Affermazione che se è vera (ma lei smentisce) racconta come la Cancellieri avesse dei debiti di gratitudine nei confronti del pregiudicato siciliano. E che se è falsa conferma invece la grave imprudenza dimostrata nel coltivare l’amicizia con dei personaggi come i Ligresti e nel continuare a rivendicarla (“con Antonino abbiamo un rapporto trentennale”, dice ora).
Di tutto questo però in un paese messo in ginocchio dai tengo famiglia e degli amici degli amici si discute assai poco. Si sprecano invece gli elogi perché la Guardasigilli ha di fatto mantenuto la parola data alla compagna di don Salvatore: un mese dopo la telefonata del “conta su di me” la Cancellieri parla infatti con l’altro mazzettaro di famiglia (Antonino) e poi segnala alla direzione delle carceri le cattive condizioni di salute di una delle figlie di don Salvatore, Giulia, detenuta nonostante una fortissima anoressia e per questo poi scarcerata dalla magistratura.
Così oggi, con il sostegno di quasi tutte le larghe intese, la ministra ripete di essere orgogliosa di come si è comportata e spiega di essersi mossa solo per “umanità”, esattamente come aveva fatto con altri 110 carcerati. A suo dire il fatto che la procura di Torino abbia ricordato come la giovane Ligresti sia uscita di prigione senza che sui pm fossero avvenute pressioni di sorta, conferma la correttezza del suo operato.
L’autodifesa, va detto chiaro, è però solo una squallida furbata. È un inganno che finisce per infangare anche le parti buone della carriera – prima come prefetto e poi come governante – di Anna Maria Cancellieri. Ma c’è poco da stupirsi. Per preoccuparsi della propria reputazione è necessario averne una. Ma ormai la Guardasigilli dei Ligresti una reputazione non ce l’ha più.
In questa storia, infatti, il punto non sono i poteri del ministro che, come responsabile delle carceri, segnala ai vertici del Dap (Dipartimento amministrazione penitenziaria) i casi di detenuti a rischio di cui viene a conoscenza. In discussione ci sono invece i suoi doveri.
Un esponente di governo non telefona alla compagna di un pregiudicato appena riarrestato e men che meno si mette a disposizione. Se lo fa, immaginando oltretutto che la linea sia sotto controllo, accetta il rischio di infangare se stesso e l’istituzione che rappresenta. Un prefetto come la Cancellieri può benissimo essere amica e frequentare, senza saperlo, dei corruttori, ma quando scattano le manette e poi arrivano le condanne interrompe i rapporti. Oppure cambia mestiere.
Se non lo fa spalanca la porta a qualsiasi sospetto. Persino a quello infamante di essere in qualche modo ricattabile: o dai Ligresti o dal blocco di potere da sempre presente alle loro spalle. Se non tronca subito ogni relazione permette ai cittadini di pensare che anzi è stata messa lì proprio per quello. Seduta a Roma su una poltrona chiave, la Giustizia, che ora non per caso nessuno, o quasi, le vuole togliere.

Campania. Non avevavo capito nulla: l’emergenza rifiuti non è mai esistita

E’ un disastro accaduto per caso e per circostanze astrali. Se oggi i napoletani, i campani sono degli appestati devono maledire loro stessi. Anzi per contrappasso devono subirsi anche il solito tweet – ‘popolo di merda’ – del poco originale bamboccione pokerista Mario Adinolfi. Ecco, noi subiamo tutto. Sempre in silenzio. Chi aveva responsabilità di governo ai massimi livelli, chi ricopriva le cariche commissariali, chi ha dettato il proprio verbo per oltre un ventennio non è colpevole di nulla. Quell’incubo, quel buco nero di munnezza è solo frutto di una ipersensibile percezione collettiva immaginaria. L’ecoballa a cazzo di cane non costituisce reato. Sullo sfondo sbiadito resta solo un dettaglio: le contestazioni più pesanti per i 27 imputati non sono neppure approdate a dibattimento perché prescritte. Adesso occorre passare per vittime, essere riabilitati, ringiovanirsi politicamente, esibire un credito da riscuotere nei palazzi, aspettare le scuse, rimettersi al timone con la promessa di garantire sempre loro: i vecchi e nuovi amici.
Le sentenze vanno rispettate, ci mancherebbe. Ma nessuno può davvero immaginare che quel grande cataclisma che è stato in Campania il ciclo dei rifiuti non abbia dei responsabili. Ho nella mente ancora le suppliche della gente prigioniera in casa che affacciata implorava la presenza di un bobcat per spalare le cataste di immondizia che invadevano portone, finestre, balconi di un secondo piano. Giorni tragici. Accadeva a Napoli, in Campania, in Italia, nell’Europa del terzo millennio. Vorrei capire di cosa parliamo. Antonio Bassolino, i suoi vassalli, i portaborse, i suoi prestanome, la cerchia magica dei fedelissimi, il suo apparato dalle convergenze trasversali e il suo partito allora come oggi gonfio di tessere meno pregiate di quelle dei buoni sconto dei supermercati, erano loro i protagonisti principali della scena politica campana e nazionale di quegli anni. A lui ed ai suoi uomini toccano le responsabilità tutte politiche di quanto accaduto.
Troppo facile e banale ricorrere spiegazioni giudiziarie o morali. Ci sono le assoluzioni, restano i sei milioni di tonnellate di ecoballe, il cosiddetto corpo di reato che  tale non è, ammassate sui territori dove abitano i residenti-elettori che a quella classe politica aveva affidato un mandato per costruire con la politica delle buone pratiche il futuro. Ecco quel futuro non esiste più. Al suo posto c’è un’ipoteca su tre generazioni che ha le fattezze di cubi di munnezza compressa, avvolta da nastro verde a testimonianza di un ciclo di rifiuti mai decollato e di una politica sott’accusa. Toccherà allo Stato – scrivono i giudici – rimuoverle dal territorio. Voglio ricordare che è lo stesso Stato che ha segretato i verbali del collaboratore di giustizia, il camorrista Carmine Schiavone, che nel 1997 indicava, raccontava cosa vi fosse sotto terra. Nessuno fece niente. Silenzi. Omissis. Segreti. La Commissione bicamerale presieduta dal verde Massimo Scalia votò all’unanimità proposte di legge e modifiche al codice penale che se attuate avrebbero evitato il genocidio di una popolazione e l’avvelenamento di un’intera regione.
Adesso tutte anime belle: c’è chi c’era ma non c’era; c’è chi non aveva capito; c’è chi votava e non sapeva cosa; c’era chi firmava ma non aveva letto (Ricordate la reazione furibonda e scomposta dello stesso Bassolino quando Bernardo Iovene di Report gli chiese conto delle inutili consulenze affidate a Tizio, Caio e Sempronio?). E’ il solito gioco delle tre scimmiette. Inspira l’aria. Fermati. Come nella preghiera del Santo Rosario snocciola i nomi e dici Amen. Giorgio Napolitano all’epoca dello scempio era ministro dell’Interno ora è al secondo mandato di Presidente della Repubblica. Voglio dire mai un monito. Mai. E poi Gianni Pittella, all’epoca dei fatti deputato nelle fila del Pds e componente di quella commissione d’inchiesta sui rifiuti. Adesso continua ad essere il feudatario della Basilicata, è vice presidente del Parlamento Europeo e candidato alla leadership del Pd. Loro come tanti non vedevano, non sentivano e non parlavano.
Lo so è forte il paradosso, sembra una provocazione, non lo è. L’unico “serio” resta proprio il cassiere dei Casalesi il boss Carmine Schiavone: almeno lui, in tempi non sospetti, decise di affidarsi allo Stato. Forse non sapeva che quello Stato in alcune sue articolazioni e gangli è più marcio, più intrallazzatore e più illegale del suo stesso mondo d’appartenenza. Mi chiedo: i cittadini cosa devono fare? Cosa devono pensare? A chi devono rivolgersi? Il timbro “riservato” e le verità giudiziarie che non coincidono con la verità assolvono i rappresentanti di quelle istituzioni che furono i cerimonieri del disastro. Il ceto politico – nel frattempo – non solo non si è rinnovato ma chiede oggi a gran voce ai dinosauri assolti e prescritti di tornare a salvare la patria. Ecco non avevamo capito nulla, non c’è mai stata l’emergenza rifiuti

domenica 3 novembre 2013

Caccia alle discariche segrete di Gomorra: “Viviamo su 800 mila tonnellate di veleni”


Campania, Lazio e Molise: viaggio nel triangolo della vergogna. Tra scorie, ruspe e silenzi



 


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LA TESTIMONIANZA Il pentito Schiavone: "In 20 anni saranno tutti morti di tumore"
LEGGI La testimonianza integrale di Schiavone

A Casal di Principe, dove le ruspe di Stato sono tornate di recente, il giorno dopo, regna un grande silenzio. Che nasconde rabbia e vergogna. La rabbia di chi vuole certezze su quel che è stato sepolto nei terreni, la vergogna di chi ha venduto la salute dei propri suoli in cambio di 200mila lire dell’epoca, chiudendo un occhio di fronte all’arrivo dei camion con carichi di immondizia “vietata”. I carabinieri e i vigili con gli specialisti dell’Arpac sono arrivati a scavare fino a 12 metri appena qualche giorno fa, hanno trovato fanghi industriali e frammenti di metalli, residui di fusti passati subito dalla procura antimafia di Napoli all’esame degli specialisti dell’Arpa regionale.


Una madre, ai bordi del paese diventato sinonimo di Gomorra, ora si interroga e fa spallucce. "Li ho visti scavare un’altra volta, a via Sondrio, a via Isonzo. Ma li avremo mai i risultati, ce li daranno? Sapremo quali rischi corrono i miei figli?". Angela Cristiano si gira e trascina i ragazzini verso il cortile interno. Alla periferia di Casale, dove il giorno di festa spegne le strade e tiene le famiglie chiuse nei saloni delle masserie, c’è persino un’area della Curia attualmente sotto sequestro per sospetti interramenti di rifiuti gestiti dalla camorra. E nessuno se n’è meravigliato. Renato Natale, l’ex sindaco dell’antimafia, un simbolo per Casale, però attacca: "Hanno lasciato la vecchia immondizia anche intorno agli scavi. Ci sono tante discariche a cielo aperto. Lo abbiamo segnalato, inutilmente".

Arrivavano fino a 30 metri per seppellire i rifiuti industriali, racconta Schiavone. "A Villaricca e Qualiano", nel napoletano, ad esempio furono sotterrati 520 fusti pericolosi. Nel 1991, primo campanello d’allarme: Michele Tamburrino, autista argentino di origini campane, fu costretto a lasciare il camion in strada e a farsi portare in ospedale, aveva i polmoni avvelenati e la vista annebbiata dai vapori dei bidoni appena trasportati per conto dei casalesi. Poco dopo, sarebbe esploso il blitz di Adelphi: la prima inchiesta su logge massoniche, mafie e politica intrecciate intorno al traffico d’oro dei rifiuti, in arrivo dal Settentrione delle nostre industrie e dal nord Europa. Ma Schiavone tocca decine di luoghi. Molte province. Compresa quella di Latina, e il Molise. Una “striscia del rischio” che mette i brividi: carichi da milioni di tonnellate, 800mila quelle sospette. Già da tempo l’Ires (Istituto di ricerche economiche e sociali) calcolava: da fine anni Novanta a oggi i clan della camorra hanno sversato, solo nei 30 chilometri del litorale domizio "341mila tonnellate di rifiuti speciali pericolosi, 160mila di rifiuti speciali non pericolosi e altre 305mila di immondizia solida urbana".

Schiavone dice: "A Castel Volturno, i veleni li interravamo nei laghetti". Racconta che negli anni Ottanta toglievano sabbia dal litorale domitio per realizzare il calcestruzzo e poi i “laghetti”, "venivano imbottiti di rifiuti". Ma ogni buco era buono per colmarlo a peso d’oro: anche sotto le vasche per l’allevamento di pesci. Neanche le acque si salvavano. Sarebbero stati tombati fanghi a ridosso dei laghi di Lucrino e d’Averno: luoghi per eccellenza del mito, l’Averno era porta d’ingresso dell’Ade, ora l’agonia dell’ambiente. Così il sindaco di Pozzuoli, Vincenzo Figliolia annuncia "una task force per i controlli ", anche nella zona flegrea dei laghi.

Anche i cittadini della “Terra dei fuochi” dove solo ieri i vigili del fuoco hanno spento oltre quindici incendi, premono per le bonifiche, annunciano una grande manifestazione di piazza a Napoli per sabato 16. "L’abbiamo sempre detto che ci hanno avvelenato da anni". Sì, lo sapevano tutti. Specie i colletti bianchi, ingegneri delle discariche lecite e illecite, e pezzi di Stato deviato che hanno partecipato alla pioggia di miliardi dei commissariamenti sui rifiuti in Campania. E lo raccontavano i pentiti. Non solo Schiavone. Ma anche Gaetano Vassallo, autentico imprenditore dei rifiuti, che ha “rovinato” padrini e politici di spicco, come Nicola Cosentino. E lo sta ripetendo, da qualche mese, il più recente dei collaboratori di giustizia: Luigi D’Ambrosio, alias Uccellino.

Uno che comincia così i suoi verbali. "Sono quello che spostava la terra e guidava i camion con i rifiuti. Solo io ho visto calare giù una ventina di furgoni. Io sono l’escavatorista".

Da Craxi al Cavaliere, la Family al potere


la Repubblica  2 novembre 2013
Alberto Statera

cancellieri«A’MEGGHIU parola è chidda ca ‘un si dici». Altra tempra rispetto ai figli il capostipite della Family don Salvatore Ligresti che, chiuso per 112 giorni a San Vittore nell’estate 1992, spiegava al compagno di cella che gli preparava gli spaghetti il vecchio proverbio siculo imparato da giovane a Paternò, provincia di Catania. La figlia Giulia Maria, condannata in settembre a 2 anni e otto mesi per falso in bilancio e aggiotaggio, ha sopportato la cella per poco più di un mese, prima che in agosto la Family mettesse nei guai il ministro della Giustizia Anna Maria Cancellieri. CON la richiesta di intercedere per il trasferimento della signora ai domiciliari. Di ciò «ca ‘un si dici» don Salvatore aveva una gerla cospicua, tra le più fornite dell’epoca di Tangentopoli. Tanto che, ottenuta la liberazione dopo lo scandalo craxiano per l’appalto della Metropolitana milanese, fu arrestato di nuovo nel 1993 per l’affare Eni-Sai avendo distribuito mazzette per 17 miliardi di lire, gran parte dei quali destinati a Bettino Craxi, condannato poi in Cassazione a 5 anni e sei mesi nel 1996.
THE FAMILY
Giulia Maria, aspetto esile, sofferente di anoressia secondo quanto comunicato ai magistrati e al ministro Cancellieri, non ha proprio il carattere roccioso dei siculi che hanno fatto il bello e il cattivo tempo per mezzo secolo a Milano: da Michelangelo Virgillito a Raffaele Ursini, da Michele Sindona al papà don Salvatore e a Enrico Cuccia. Ma l’eloquio rivelato dalle intercettazioni mostra un’indole battagliera, come quella della sorella cavallerizza Jonella. Meno nota alle cronache la cifra caratteriale del fratello Paolo, latitante da mesi. Fatto sta che, sfangata Mani pulite, non potendo più ricoprire cariche ufficiali per le condanne subite, don Salvatore divide i posti di comando del
gruppo tra la figliolanza. Ma continua a comandare lui e torna a comportarsi come un intoccabile. Enrico Cuccia, che lo coccolò per anni perché convincesse l’amico Craxi (anche lui vantava antenati siculi) alla privatizzazione di Mediobanca, non c’è più.
Ma l’Italia ha la memoria corta e il capitalismo di relazione, che molti ottimisti vogliono oggi verso la fine per consunzione, perdona facilmente gli impulsi delinquenziali dei suoi accoliti.
Soprattutto se sono quelli di don Salvatore soprannominato «Mister 5 per cento» perché fino agli ultimi eventi che hanno colpito la dinastia si trovava a controllare partecipazioni in Mediobanca, Pirelli, Gemina, Rcs, Generali. Il cuore del capitalismo familistico delle scatole cinesi e dei conflitti d’interesse. E in più era intimo di Berlusconi, fin dai tempi in cui Silvio era un palazzinaro arrembante che con lui partecipò all’acquisto della televisione Gbr, curato dall’attuale ex ministro berlusconiano Paolo Romani, da recare in dono all’amante di Craxi Anja Pieroni.
PROGENIE FAMELICA
L’amministratore delegato di Mediobanca Alberto Nagel è indagato perché avrebbe apposto una firma (dice solo «per visione») al “papello” recatogli da Jonella Ligresti con le condizioni per approvare il passaggio del gruppo Fonsai a Unipol. Richieste fantasmagoriche. Quarantacinque milioni per il 30 per cento di Premafin, emolumenti personali a Salvatore e alla progenie: 700 mila euro a testa per 5 anni, per un totale di 14 milioni; buonuscita per la carica a Jonella; buonuscita a Giulia, più consulenza in Compagnie Monegasque; buonuscita a Paolo fuggiasco.
Contratto «all’ing.», cioè don Salvatore, con Hines, la società del costruttore Manfredi Catella. Poi i benefit accessori: uso gratuito degli uffici di Milano, con segreterie, autisti, foresterie di Milano e Roma, auto attualmente utilizzate: Mercedes, Bmw e Audi. E per le vacanze? Uso gratuito degli appartamenti al Tanka Village, e uso della cascina di Milano.
Pare che nel “papello” non figurassero i jet Falcon sui quali le sorelle viaggiavano, ma non insieme
neanche per lo stesso viaggio. Ma se un banchiere come Nagel avesse accettato queste condizioni, sarebbe da rinchiudere, pur non essendo certamente ignaro dell’avidità della figliolanza, che si è rivelata famelica non meno del capostipite e che per anni lo ha aiutato nel saccheggio a spese degli azionisti, con la complicità di banchieri, industriali, politici e autorità di controllo. Difficile dire quanto ha depredato la Famiglia dalle società controllate, come se prelevasse da un Bancomat. Per i cavalli di Jonella, per la sua laurea honoris causa all’Università di
Torino, sponsor il professor Sergio Bortolani, direttore della Scuola di Management ed Economia e nientemeno che consigliere della Banca d’Italia.
Giulia, che in prigione rifiutava di mangiare, faceva la stilista a spese della Fondiaria-Sai ed è la bella di
papà, tanto che «Novella 2000», testata della Rizzoli di cui i Ligrestos erano azionisti, la ha impalmata reginetta di bellezza tra le top manager, sulla base del giudizio di una giuria di 20 banchieri e giornalisti economici (i nomi, please).
LA PROGENIE DELLA MINISTRA
Anna Maria Cancellieri è una donna simpatica e forse anche una brava funzionaria dello Stato. Ma non si può fare a meno di chiedersi: come può un prefetto diventato persino ministro intrattenere rapporti così intimi con un pregiudicato pluricondannato e con la sua famiglia? Dice di essere tanto amica della compagna di don Salvatore, che le ha chiesto l’intervento per Giulia. Ma l’ammissione è quantomeno riduttiva. Correva infatti il 1987, quando nella Milano craxiana “da bere” la giovane viceprefetto Anna Maria Peluso, che faceva le pierre in Prefettura, mostrava intimità con Antonino Ligresti, fratello di don Salvatore e proprietario di cliniche. Il giornalista Federico Bianchessi ha raccontato come la giovane signora fosse presente nella clinica Città di Milano a una sua intervista con il povori tente clinicaro. Ciò che fa ritenere forse successiva l’amicizia con la compagna di don Salvatore, Gabriella Fragni. La quale, peraltro, inconsapevole forse della gravità di quella telefonata partita dal ministero di Grazia e Giustizia subito dopo l’arresto della Family meno uno, insulta persino l’amica ministro. «Ieri ho avuto una telefonata che poi ti dirò», racconta alla figlia. «Gli ho detto: ma non ti vergogni di farti vedere adesso? Ma che tu sei lì perché ti ci ha messo questa persona ». Quale persona? La Ligresti Family in disarmo, sei mesi fa era ancora in grado di fare ministri, come ai tempi di Craxi e di Berlusconi? O l’aiuto ricevuto da Anna Maria è di altra natura? Certo, la carriera di Piergiorgio Peluso, figlio dell’ex viceprefetto Anna Maria Peluso diventata ministro, è folgorante e i suoi redditi da favola. Un bravo manager? No, «un idiota», secondo Giulia Maria, intercettata al telefono con un amico. Se Piergiorgio è davvero un idiota non si capisce la sua carriera fulminea se non con l’appartenenza al cerchio di potere della mamma, un cerchio dove conta soprattutto il «capitale relazionale» in una società ormai divisa in network di potere, dove la competenza è un surplus. Ma Giulia è una donna avvelenata e sull’affermazione secondo cui Piergiorgio in Fonsai « in un anno ha distrutto tutto» va necessariamente presa con le molle.
Quarantacinque anni, dopo la laurea alla Bocconi Piergiorgio lavorò in Mediobanca, poi in Credit Suisse e in Capitalia ai tempi di Cesare Geronzi, dove trattava i rapporti con il gruppo Ligresti. E’ lì che approdanel 2011.
Indicato da Mediobanca o dai Ligresti stessi? Fatto sta che appena arrivato sulla tolda di direttore generale non può fare a meno di rilevare che la Fonsai ha gravi problemi di solvibilità.
Resta poco più di un anno e se ne va con una buonuscita di 3,6 milioni o di 5, secondo quanto dice al telefono Giulia Maria, calcolando forse anche 14 mesi di stipendio. Un bel gruzzolo che lo accompagna subito nella carica di direttore finanziario di Telecom.
OLIGARCHIE DI POTERE
Chi ha detto che oggi è difficile trovare lavoro? Forse sì per i comuni mortali, ma non per chi fa parte di una oligarchia che si è di fatto eletta in classe separata rispetto alla cosiddetta società civile. Don Totò ha avuto bisogno di tutti e tutti hanno avuto bisogno di lui: politici, imprenditori, prefetti, banchieri: chi può dire di non aver avuto facato
da lui? A parte il noto clan ex fascista dei La Russa, il cui capostipite Antonino gli presentò Enrico Cuccia che poi lo favorì (ricambiato) per una vita, per avere un piccolo test basta scorrere il citofono del suo palazzo romano di via Tre Madonne, dove ha abitato o abita un plotone impareggiabile di potenti: dal vicepremier Angelino Alfano al presidente dei deputati berlusconiani Renato Brunetta; da Italo Bocchino, ex vice di Fini, all’amministratore delegato della Consap Mauro Masi, fino a Marco Cardia (figlio dell’ex presidente Consob) e a Chiara e Benedetta Geronzi. L’immobile è bello, ma non invidiamo gli inquilini. Sembra il palazzo di Devil’s advocate, dove l’avvocato Milton-Al Pacino conduceva all’inferno i suoi adepti.

Sicilia Sera. Ospite Nella Toscano. 01/11/2013