domenica 27 novembre 2011

Il candidato sindaco di sinistra che non c’è!

https://www.facebook.com/notes/nella-toscano/il-candidato-sindaco-di-sinistra-che-non-c%C3%A8/401576144970
 Seguire il dibattito in atto a Palermo su chi deve essere il candidato del Pd a Palermo è davvero deprimente, così come deprimente è non vedere  emergere una figura che possa concorrere a questa battaglia espressione di una sinistra vera con un chiaro programma di sinistra .
Il PD ormai rincorre il terzo polo e la Borsellino si ritrova in mezzo al guado e per certi versi in una situazione davvero imbarazzante, almeno a mio modo di vedere, perché dopo avere accettato molto frettolosamente la candidatura offertale da Bersani adesso si ritrova a dovere scegliere se vuole essere la candidata del PD l’alleanza con il terzo polo, secondo quanto deciso dalla direzione provinciale di questo partito.
Non sembra davvero una bella prospettiva, così come non è davvero una bella prospettiva constatare che la sinistra, ormai a Palermo quasi inesistente,  non ha la capacità  di sapere esprimere un candidato credibile che la possa rappresentare, almeno fino ad oggi non è successo se è vero come è vero che SeL si è lanciata subito nel sostegno alla Borsellino, rinunciando ad un candidato proprio, con il risultato che se la Borsellino dovesse accettare l’ultimatum del PD si ritroverà infilata direttamente dentro l’alleanza con il terzo polo e se non ci dovesse stare ad abbandonare la Borsellino.
Un bel guaio anche per sel quindi.
Se  la Borsellino dovesse invece decidere di rinunciare all’accordo con il terzo polo e quindi con il PD si ritroverebbe ad essere appoggiata solo da sel con il paradosso che sel si ritroverebbe a sostenere una candidata che non mi pare possa dirsi di sinistra. Insomma un bel pasticcio da qualsiasi lato la si giri.
Tra i nomi che il PD ed il terzo Polo hanno preso in considerazione in caso la Borsellino rifiutasse la  loro offerta c’è quello di Massimo Russo, il magistrato cooptato inopportunamente dal potere  politico. Su questa candidatura e su quella di altri Magistrati nelle stesse condizioni io penso che   abbia ragione il  Dott. Ingoia e trovo anch’io inopportuno che magistrati si candidino a cariche amministrative nel comune in cui operano ed anche nella propria regione, perché così si rischia di mutare il rapporto controllato –controllore.
Di altri candidati nel Pd pare ce ne siano diversi, come pure  in altri partiti, ma non si intravede un candidato della società civile, e nemmeno degli innumerevoli e spesso inconcludenti movimenti, ognuno arroccato a difesa del proprio territorio.
Se le cose stanno così pare assai scontato che il prossimo sindaco di Palermo sarà ancora di destra.
Eppure sarebbe necessario strappare il Comune di Palermo alla destra, un comune dove la corruzione regna sovrana, come stanno portando alla luce le ultime indagini  che, a mio parere, hanno solo sfiorato quel sistema corrotto.
Sarebbe necessario  invece cercare di rimettere ordine in questo Comune per cercare di ristabilire la legalità, costruendo regole certe da rispettare e fare rispettare, ma temo che ci sono troppi interessi perché ciò possa avvenire. 
Nella Toscano

Il debito della Madonna - Domenico De Simone, controeconomista

mercoledì 23 novembre 2011

Un pensiero profondo per la politica

https://www.facebook.com/notes/nella-toscano/le-idee-un-pensiero-profondo-per-la-politica/399554894970
di BARBARA SPINELLI
NEL PRESENTARE il proprio governo, il 16 novembre scorso, il nuovo premier Mario Monti ha raccontato come i dirigenti dei partiti abbiano preferito non entrare nell'esecutivo e ha aggiunto un'osservazione significativa, e perturbante. "Sono arrivato alla conclusione, nel corso delle consultazioni, che la non presenza di personalità politiche nel governo agevolerà, piuttosto che ostacolare, un solido radicamento del governo nel Parlamento e nelle forze politiche, perché toglierà un motivo di imbarazzo".

La frase turba perché con un certo candore rivela una verità oculatamente nascosta. Così come sono congegnati, così come agiscono da decenni, i partiti non sanno fare quel che prescrive la Costituzione: non sono un associarsi libero di cittadini che "concorre con metodo democratico a determinare la politica nazionale"; rappresentano più se stessi che i cittadini; e nel mezzo della crisi sono motivo d'imbarazzo. Il nuovo premier ama la retorica minimalista  -  la litote, l'eufemismo  -  ma quando spiega che le forze politiche non vogliono scottarsi perché "stanno uscendo da una fase di dialettica molto molto vivace tra loro" (e non senza asprezza aggiunge: "Spero, che stiano uscendo") snida crudamente la realtà.
È una realtà che dovrebbe inquietarci, dunque svegliarci: al momento, i partiti sono incapaci di radicare in Parlamento e in se stessi l'arte del governare. Sanno conquistare il potere, più che
esercitarlo con una veduta lunga e soprattutto precisa del mondo. Sono come reclusi in un cerchio. È ingiusto che Monti deprezzi la nobile parola dialettica. Ma i partiti se lo meritano.

Questo significa che l'emergenza democratica in cui viviamo da quando s'è disfatto il vecchio sistema di partiti, nei primi anni '90, non finisce con Berlusconi: il berlusconismo continua, essendo qualcosa che è in noi, nato da storture mai raddrizzate perché tanti vi stanno comodi. Il berlusconismo irrompe quando la politica invece di ascoltare e incarnare i bisogni della società accudisce i propri affari, spesso bui. La dialettica, che dovrebbe essere ricerca dell'idea meno imprecisa, per forza degenera. È a quel punto che le lobby più potenti, constatando lo svanire di mediatori tra popolo e Stato, si mettono a governare direttamente, accentuando lo sradicamento evocato da Monti.

Questa volta, a differenza di quanto accadde nel '94, entrano in scena tecnici di grande perizia, e l'Età dei Torbidi con ministri inetti, eversivi, premiati perché asserviti al capo, è superata. Ma non tutto di quell'età è superato, e in particolare non il vizio maggiore: il conflitto d'interessi. Un vizio banalizzato, quando a governare non sono solo accademici e civil servants europei come Monti, ma banchieri che sino al giorno prima hanno protetto non la cosa pubblica bensì i profitti di aziende, banche. È il caso di Corrado Passera, che appena nominato ha lasciato Banca Intesa ma guida dicasteri e deleghe (sviluppo, infrastrutture, trasporti, telecomunicazioni) legati rischiosamente ad attività di ieri. Sarà ardua la neutralità, quando si tratterà di favorire o no i treni degli amici Montezemolo e Della Valle, di favorire o no quell'Alitalia che lui stesso (con i sindacati) volle italiana, nel 2008, assecondando l'insania di Berlusconi e affossando l'accordo di Prodi e Padoa-Schioppa con Air France: l'italianità costò ai contribuenti 3-4 miliardi di euro, e molti disoccupati in più. Passera assicura: "I fatti dimostreranno" che conflitto d'interessi non c'è. Vedremo. Il male che Monti denunciò su La Stampa il 4-5-07 (il "potere occulto delle banche", la "confusione tra politica e affari") e tanto irritò Passera, per ora resta.
Alcuni dicono che la democrazia è sospesa, e qualcosa di vero c'è perché la Repubblica italiana non nacque come Repubblica di ottimati. Ma il grido di sdegno suona falso, e non solo perché la Costituzione non prevede l'elezione di un premier, caduto il quale si torna al voto. È falso perché preserva, occultandolo, uno dei nostri più grandi difetti: l'inattitudine a esplorare i propri storici fallimenti.

Se la democrazia viene affidata ai tecnici e alla loro neutralità ideologica, è perché politica e partiti hanno demandato responsabilità che erano loro, specie in tempi di crisi. Perché non hanno raccontato ai cittadini il mondo che muta, lo Stato nazione che ovunque vanta sovranità finte, l'Europa che sola ci permette di ritrovare sovranità. Perché non dicono che esiste ormai una res publica europea, con sue leggi, e che a essa urge lavorare, dandole un governo federale, un Parlamento più forte, una Banca Centrale vera. Non domani: oggi.

La situazione italiana ha una struttura tragica, che toccò l'acme quando fu scoperchiata Tangentopoli ma che è più antica. Ogni tragedia svela infatti una colpa originaria, per la quale son mancate espiazioni e che quindi tende a riprodursi, sempre più grave: non a caso non è mai un eroe singolo a macchiarsi di colpe ma un lignaggio (gli Atridi, per esempio). La colpa scardina la pòlis, semina flagelli che travolgono legalità e morale pubblica. Alla colpa segue la nemesi: tutta la pòlis la paga.
In Italia la scelleratezza comincia presto, dopo la Liberazione. Da allora siamo impigliati nel cortocircuito colpa-nemesi, senza produrre la catarsi: il momento della purificazione in cui  -  nelle Supplici di Eschilo  -  s'alza Pelasgo, capo di Argo, e dice: "Occorre un pensiero profondo che porti salvezza. Come un palombaro devo scendere giù nell'abisso, scrutando il fondo con occhio lucido e sobrio così che questa vicenda non rovini la città e per noi stessi si concluda felicemente". Lo sguardo del palombaro è la rivoluzione della decenza e della responsabilità che tocca ai partiti, e l'avvento di Monti mostra che l'anagrafe non c'entra. Sylos Labini che nel '94 vide i pericoli non era un ragazzo. Scrive Davide Susanetti, nel suo bel libro sulla tragedia greca, che il tuffo di Pelasgo implica una più netta visione dei diritti della realtà: "Per mutare non bisogna commuoversi, ma spostarsi fuori dall'incantesimo funesto del cerchio" che ci ingabbia (Catastrofi politiche, Carocci 2011).

Monti non è ancora la guarigione, visto che decontaminare spetta ai politici. Per ora, essi vogliono prendere voti come ieri: vendendo illusioni. Ma Monti è un possibile ponte tra nemesi e catarsi. Già il cambiamento di linguaggio conforta: sempre le catarsi cominciano medicando le parole. L'ironia del premier sull'espressione staccare la spina è stata un soffio di aria fresca nel tanfo che respiriamo. Altre parole purtroppo restano. Quando Passera dice che "sì, assolutamente" usciremo dalla crisi, usa il più fallace degli avverbi. Anche la parola blindare andrebbe bandita: nasce dal linguaggio militare tedesco (lo scopo è render l'avversario cieco, blind). Non è una bella dialettica.

Monti è l'occasione, il kairòs che se non cogliamo c'inabissa. Per i partiti, è l'occasione di mutare modi di pensare, rappresentare, in Italia e soprattutto in Europa. Di ricominciare la "lunga corsa" intrapresa dopo il '45. Di darsi un progetto, non più sostituito dall'Annuncio o l'Evento: quell'Evento, dice Giuseppe De Rita, "che scava la fossa in cui cadrà il giorno dopo".

Non c'è un solo partito che abbia idee sull'Europa da completare. Non ce n'è uno che dica il vero su clima, demografia, pensioni, disuguaglianza, crisi che riorganizza il mondo. Diciamo commissariamento, come se poteri europei fatali ci comandassero. In realtà siamo prede di forze lontane perché l'Europa politica non c'è. Monti denunciò a giugno l'eccessiva deferenza fra Stati dell'Unione. Speriamo non sia troppo deferente con Berlino. Che glielo ricordi: le austerità punitive imposte prima della solidarietà sovranazionale sono come le Riparazioni sfociate dopo il 14-18 nella fine della democrazia di Weimar.

Le patologie italiane permangono, nonostante i molti onest'uomini al governo. Il fatto che il partito più favorevole a Monti, l'Udc, sia invischiato nelle tangenti Enav-Finmeccanica, e si torni a parlare di "tritacarne mediatico", è nefasto. Il pensiero profondo che salva lo si acquisisce solo se si scende giù nell'abisso, scrutando il fondo. Scrutarlo con l'aiuto di un'informazione indipendente aiuterà chi pensa che non basti un Dio, per risollevarci e rimettere nei cardini il mondo.

 
(23 novembre 2011)

martedì 22 novembre 2011

 La vedova dell'ex presidente Francois Mitterrand aveva 87 anni. Era stata ricoverata venerdì scorso in seguito a un malore. Partigiana durante il secondo conflitto mondiale, si era poi spesa come attivista a difesa dei popoli oppressi, dai curdi, ai tibetani, ai cubani, agli indios messicani organizzati dal subcomandante Marcos

PARIGI - E' morta Danielle Mitterrand, vedova dell'ex presidente francese Francois Mitterrand. Aveva 87 anni. Venerdì scorso era stata ricoverata all'ospedale Georges-Pompidou di Parigi in seguito a un malore causato da un colpo di stanchezza. Domenica era stata posta in coma farmacologico.

A settembre l'ex première dame di Francia era stata ricoverata al Georges-Pompidou per insufficienza respiratoria, ma in seguito, lo scorso 21 ottobre, aveva partecipato alla celebrazione del 25mo anniversario della fondazione France Liberté da lei presieduta.

Partigiana durante il secondo conflitto mondiale, nel corso della sua vita Danielle Mitterand si è distinta anche come attivista per i diritti umani 1 e per la difesa dei popoli oppressi, dai curdi, ai tibetani, ai cubani, agli indios messicani organizzati dal subcomandante Marcos.

Nata il 29 ottobre del 1924 a Verdun, nell'est della Francia, a 17 anni si unì alla resistenza contro i nazisti come infermiera. Proprio in quel periodo, a Cluny, in Borgogna, nella casa di famiglia dove si era rifugiato suo padre, Danielle conobbe il capitan "Morland", ovvero Francois Mitterand, allora ricercato dalla Gestapo. Si sposarono il 27 ottobre del 1944.

Entrata suo malgrado nel vortice della politica, Danielle è stata al fianco del marito in diverse campagne e avventure politiche dalla fine della guerra sino al 1981, quando Francois fu eletto alla presidenza della Repubblica, confermato all'Eliseo anche nel 1988.

 La première dame Danielle rifiutò di farsi imbrigliare dal protocollo e approfittò del suo ruolo per sostenere le cause a lei più care. Nel 1986 creò la fondazione France-Libertés che a ottobre scorso ha festeggiato il suo 25esimo anniversario. Nel 1992, assieme al ministro della Sanità e dell'azione umanitaria Bernard Kouchner, Danielle Mitterand scampò a un attentato durante una visita nel Kurdistan iracheno.

Madre di due figli, Gilbert et Jean-Christophe, vedova dal 1996, sorella della produttrice cinematografica   Christine Gouze-Rénal (morta nel 2002), Danielle Mitterand ha anche avuto un rapporto molto affettuoso con Mazarine Mitterand, la figlia a lungo segreta che Francois aveva avuto da un'altra donna. Tra i suoi molti libri,  "En toutes libertés" (1996) e "Le livre de ma mémoire" (2007). 
(22 novembre 2011) © Riproduzione riservata

venerdì 18 novembre 2011

Avviso agli amici del Treno Delle Donne Per la Costituzione

 
Care amiche e cari amici,

il Treno per la Costituzione non si è fermato, tuttavia ha incontrato alcuni ostacoli  a causa dei quali vi scriviamo per indicarvi come poter ovviare ai medesimi a proseguire la corsa insieme a noi.
Il sito attualmente online non fa più riferimento all’Associazione. La signora Montanelli infatti è stata estromessa sia dall’Associazione che  da qualsiasi carica. Di conseguenza vi diamo una nuova mail dove far pervenire le vostre adesioni, i vostri commenti e tutto quanto desiderate inviare, mentre stiamo costruendo un nuovo sito dove sarà possibile avere un’area discussioni o forum ed un blog. Per il momento quindi bisogna che utilizziate  questa mail : retedonnesiciliane@libero.it.
Stiamo lavorando ad un progetto di respiro europeo che quanto prima presenteremo al Presidente Napolitano, in linea con la richiesta fattaci, quindi ci auguriamo che aderirete  tutti all’associazione. Il nuovo sito, con un nuovo Logo relativo al Treno delle donne per la Costituzione, sarà online molto presto e ve ne daremo subito il link per permettervi di inserire i vostri preziosi contributi.
Nel frattempo vi salutiamo con  grande cordialità, stima e amicizia

Ufficio stampa
Treno delle donne per la Costituzione

martedì 15 novembre 2011

GIU' LE MANI DALLA COSTITUZIONE!

Dal momento che sento ripetere come un mantra che una stagione è finita e che una nuova sta per aprirsi, sarà davvero il caso di tornare a rispettare la Costituzione, sempre e comunque.
Ed io aggiungo, giù le mani dalla Costituzione!
Stiamo attenti, perchè bersani che dà mandato a Monti di fare riforme Costituzionali mi mette inquietudine. Un governo tecnico deve solo governare l'emergenza e non pensare a stravolgere la Costituzione.
Se si dovesse affacciare questa sciagurata prospettiva, il Treno delle Donne per la Costituzione è pronto a ripartire subito!!!
Non si illudano, noi donne vigileremo sulla nostra Costituzione!!!

sabato 12 novembre 2011

Sul " Popolo Sovrano "

di Mariano Colla

Sono giorni drammatici per il destino economico del nostro paese. Per noi, gente comune, lontana dalla stanza dei bottoni, il perseverare di notizie allarmanti sul debito, sugli spread, sulle banche in sofferenza e sulle tempeste politiche è causa di apprensione e, soprattutto, di una sensazione di impotenza.
Situazione grave che richiederebbe serietà, equilibrio e impegno da parte della politica e, invece, assistiamo a un indecoroso marasma parlamentare. In tale situazione emerge la rassicurante figura del presidente della repubblica Giorgio Napolitano che, con sensibilità istituzionale e senso dello Stato, cerca di fissare scadenze operative non solo per superare la crisi di governo in atto ma, innanzitutto, per assicurare una onorevole via d’uscita dell’Italia dallo stallo economico che attanaglia il paese sia a causa dell’incombere del debito e della assenza di crescita sia per una credibilità internazionale ai minimi storici.
Si impongono interventi di emergenza come poche volte si sono resi necessari nella storia della Repubblica italiana.
Ebbene, nonostante l’evidente e conclamata gravità della situazione e la necessità di interventi tempestivi, alcuni partiti, contrari ad interventi d’emergenza, invocano il diritto del popolo sovrano ad esprimersi, tramite libere elezioni, sull’assetto politico che dovrà guidare la gestione del potere nei mesi a venire. Quando un governo cade i principi di uno stato democratico lo impongono. La domanda che mi faccio, leggendo i quotidiani e guardando la televisione, è se il popolo sovrano abbia gli strumenti, la sensibilità, la competenza e il tempo per esprimersi in una situazione di tale gravità che richiede azioni mirate e tempestive.
Per curiosità ho aderito a uno dei sondaggi che la rete sollecita sul quesito: elezioni anticipate o governo tecnico di larghe intese?
Al momento il risultato del sondaggio fornisce i seguenti risultati: a favore delle elezioni anticipate il 40,6% , a favore di un governo di emergenza circa il 56%. I sondaggi vanno valutati « cum grano salis » , ma una indicazione la devono pur dare se la politica ne ha fatto un gran uso da un po’ di tempo a questa parte. Mi sembra che il popolo sovrano un orientamento lo stia esprimendo, orientamento che i partiti politici dovrebbero considerare, dimenticandosi, almeno in questo caso, degli interessi di parte.
Siamo tutti d’accordo che in una situazione normale, come peraltro è spesso accaduto in passato, le elezioni anticipate sono la norma in democrazia, ma, forzando un celebre concetto del filosofo e sociologo tedesco Carl Schmitt, la sovranità si esercita anche tramite l’introduzione dello stato di eccezione quale sospensione della norma, quando le situazioni lo impongono. E, a mio avviso, non potendo ignorare oltre gli appelli preoccupati che eminenti economisti rivolgono da alcuni mesi al nostro paese, vi sono tutte le motivazioni per applicare lo stato di eccezione. Va inoltre detto che al popolo italiano, soggetto a una legge elettorale distorta e priva di strumenti reali per la determinazione della volontà, quali le preferenze, viene al momento negata una vera libertà di scelta dei propri rappresentanti.
La necessità di una revisione della legge elettorale corrente, iniqua per la libertà di espressione, processo non realizzabile in tempi brevi, e la contemporanea urgenza di varare interventi economici e sociali, richiedono alle forze politiche un atto di responsabilità collettiva e uno spirito di coesione al quale, credo, il popolo sovrano non sarebbe contrario.
Del resto se le fibrillazioni politiche quotidiane generano oscillazioni continue della borsa e degli spread, non oso immaginare cosa potrebbe accadere nel corso di una campagna elettorale che, per quanto prevista in tempi ristretti, scatenerebbe una lotta furibonda tra i partiti coinvolti nell’agone politico. Sono previsti, volendo essere ottimisti, almeno tre mesi, nel corso dei quali andrebbero a scadenza i Bot del nostro paese per valori stimati intorno ai 220 miliardi di euro con tassi di interesse alle stelle. Dubito che il popolo sovrano ne sarebbe felice.
Ciononostante, autorevoli esponenti dei partiti di maggioranza e di opposizione evocano i principi democratici quando, mal celati, emergono i soliti interessi di parte a difesa di presunte esigenze degli elettori, laddove questi ultimi appaiono più come strumenti per mantenere rendite di posizione che come soggetti pensanti in grado di trasmettere gradimento e insofferenza nei confronti della classe politica e dei suoi magheggi. Il popolo sovrano non è più disponibile a recitare un ruolo passivo. La crisi lo ha profondamente toccato e, sia ora che in futuro, non intende più dare deleghe in bianco alla politica né in Italia, né in Europa.
L’Europa stessa appare in grave crisi di credibilità internazionale, certo non unica in uno scenario mondiale in difficoltà. Durante un recente intervento a Berlino Josè Manuel Barroso, presidente della commissione europea, ha detto: «dobbiamo coinvolgere i nostri cittadini in un dibattito onesto e aperto sull’Europa, sui suoi punti forti e le sue debolezze, sul suo potenziale e il suo futuro. Dobbiamo far loro capire quale è la posta in gioco. Dobbiamo scegliere la via della forza, non quella della debolezza. L’unità, non la frammentazione. La strada difficile, non quella facile».
 Gli fa da contraltare Jurgen Habermas che a Parigi, nel quadro del simposio organizzato dal filosofo Yves CharlesZarka sul tema « democrazia e crisi in Europa », ha evidenziato come l’insensibilità politica alle reali esigenze del popolo sovrano non sia un problema solo italiano. Il filosofo e sociologo tedesco ha infatti detto: « fino a questo momento l’Ue è stata portata avanti e monopolizzata dalle élite politiche e il risultato è stata una pericolosa asimmetria tra la partecipazione democratica dei popoli ai benefici che i loro Governi «ricavano» per sé stessi sul remoto palcoscenico di Bruxelles e l’indifferenza, per non dire assenza di partecipazione, dei cittadini dell’Ue rispetto alle decisioni del loro Parlamento di Strasburgo».
Il problema partecipativo non è quindi solo un problema italiano, è l’assenza di una reale interazione tra governanti e governati, ma esistono momenti di emergenza in cui si presuppone che la politica sappia agire per il bene della comunità, anche senza interpellarla direttamente. Vi sono responsabilità che la politica deve sapersi assumere quando le consultazioni popolari richiedono troppo tempo e il contesto economico non lo consente.
E’ quanto il nostro presidente richiede alle forze politiche: un salto di qualità, obiettivi condivisi, trasparenza e moralità, correttezza istituzionale, virtù indispensabili per guidare la nave Italia nella tempesta. In questo momento il popolo sovrano credo abbia serie difficoltà a delegare interventi così difficili e impegnativi sul futuro proprio e dell’Italia a politici che non avvertono l’urgenza di scelte condivise a larga maggioranza, scelte certamente impopolari, ma accettabili in una logica equilibrata priva di privilegi. E’ tempo di decisioni non di chiacchiere.
Mi ricordo il titolo di un film: “ in nome del popolo sovrano” di Luigi Magni, ambientato nella Roma papalina di Pio IX. Allora il popolo si illuse. Ora non si illude più e non vuole essere chiamato in causa impunemente.

venerdì 11 novembre 2011

La fine di un incubo durato più di 15 anni?

L'Italia  sta vivendo uno dei momenti più drammatici dal dopoguerra ad oggi e, come tutti abbiamo avuto modo di potere verificare, a questo punto ci siamo arrivati dopo anni di politiche scellerate della destra con a capo Silvio Berlusconi. Un incubo di oltre 15 anni  a cui domani finalmente si dovrebbe porre fine con le già preannunciate dimissioni di quest'ultimo, volute fortemente dal Presidente Della Repubblica Giorgio Napolitano.
Fino ad ora questa è la sola certezza, perchè sul dopo regna ancora una grande confusione.
Ci sarà un governo tecnico guidato da Mario Monti, come molti auspicano e per cui i mercati oggi hanno dato un segnale positivo?
Speriamo di si!
Io penso, come molti,  che in questo momento andare alle urne significherebbe solo gettare il paese nel caos, con il fondato rischio di una campagna elettorale drammatica in piena tempesta finanziaria dalle conseguenze imprevedibili.
Sono convinta che chi ha a cuore le sorti del Paese non può e non deve  auspicare questo. Non si può per fini politici mettere a repentaglio il futuro del Paese!
Incomprensibile e scellerata appare quindi la decisione di Di Pietro nell'insistere ad andare subito alle urne.
Io penso che bisogna invece appoggiare il probabile governo Monti, un governo tecnico che possa affronatre senza veto le misure più urgenti per portarci fuori da questo casino e concludere con una nuova ed assai auspicabile  legge elettorale, che possa mettere i cittadini di questo Paese nelle condizioni di segliersi i propri rapprentanti.
Sarebbe anche auspicabile che questo governo fosse messo nelle condizioni di approvare una legge sul conflitto d'interesse, per metterci al sicuro e scongiurare così un eventuale ritorno del caimano. Forse chiedo troppo, ma penso che sia più facile per un governo tecncio riuscire in questa impresa, rispetto ad un governo politico composto da questi eletti, che come abbiamo già sperimentato non hanno saputo o meglio voluto fare niente in tal senso.
Secondo me sul piano economico e finanziario la prima cosa da fare è mettere subito  la patrimoniale sui beni e sui capitali, oltre che una tassa sulle transazioni finanziare. Per quanto riguarda le pensioni, di cui si parla sempre, sarebbe auspicabile   una riforma seria che però  riequilibri il sistema, abbassando le pensioni alte ed altissime e mettendo un limite massimo alle stesse, al fine di evitare  le sconcezze che si vedono ed innalzando le pensioni minime al di sotto della soglia di sopravvivenza.
Certamente ridurre i costi della politica ed eliminare tutti i privilegi, compreso scorte, auto blu e via dicendo, perchè si è davvero superato il colmo. In Italia abbiamo 70.000 auto blu contro l'Inghilterra che ne possiede solo 150!
Io non credo che queste cose si possono però fare in due settimane come chiede Vendola, penso infatti che ci vorrà qualche giorno in più e per questo auspico che chi è a sinistra faccia la propria parte senza cominciare a porre veti che tanto male hano già fatto all'Italia ed alla sinistra medesima nel recente passato!
Mi ha davvero fatto una bella impressione vedere Mario Monti che va a fare la benzina da solo, senza scorta, nè auto blu, così come  ha lasciato in me un'ottima impressione vederlo arrivare da solo al Quirinale. Finalmente un Uomo con il senso della misura e dell'opportunità, un uomo composto ed educato. Virtù queste che ogni uomo delle Istituzioni dovrebbe avere, di cui  ahimè in questi ultimi anni si sono perse   le tracce . E' il tempo di riconquistare anche queste cose, perchè anche la forma ha la sua importanza ed è la prima cosa che vede chi ci guarda!
Nella Toscano

mercoledì 9 novembre 2011

Indifesi, senza più sovranità: ora ci prenderanno tutto

 Scritto il 09/11/11  

Non capite cosa sta accadendo? Siete smarriti dai continui sbalzi dei mercati, che un giorno crollano e due giorni dopo crescono per poi crollare e ricrescere ancora? Attenzione ai retroscena: la crisi pilotata della Grecia, Draghi alla Bce, Berlusconi sfrattato dai poteri forti della finanza euro-atlantica: «Il destino dell’Italia è segnato perchè non controlliamo più il debito pubblico», dice Marcello Foa. E ora, i detentori occulti di quel debito, «sotto l’impulso della crisi, svuoteranno l’Italia lasciandole forse risanata ma esangue. E’ il destino di chi rinuncia alla propria sovranità». Guai a restare senza una propria moneta, fa eco Felice Sardi: «Dire che un investimento socialmente valido non può essere attuato per mancanza di risorse monetarie è come dire che un ponte non può esser costruito per mancanza di chilometri».
La moneta, aggiunge Sardi su “Megachip”, è una unità di misura di valori economici e come tale non dovrebbe mai essere scarsa, come Mario Montiraccomandano gli economisti facenti capo a Randall Wray e lo stesso Richard Werner, autore di “New Paradigm in Macroeconomics”. «Sono letture utili», dice Sardi, «un ottimo antidoto rispetto all’intossicazione di “pensiero unico” che vi propineranno in questi mesi da ogni direzione, approfittando della vostra soddisfazione per l’eclisse di Silvio Berlusconi». Già, perché «non sono soltanto i popoli estenuati a festeggiare – ma per poco – il rapido declino di consolidate dinastie politiche ormai incapaci di gestire le contraddizioni dei loro paesi, dall’Italia alla Grecia, bombardati da pressioni finanziarie insopportabili». Se l’Italia piange, c’è chi ha già cominciato a ridere.
«Il crollo dei Papandreu e dei Berlusconi – spiega Sardi – si accompagna allo smottamento della sovranità di Grecia e Italia, preceduto dall’incubazione della perdita della sovranità monetaria». Si tratta di «un cambio storico, la cui reversibilità sarà difficilissima, perché strettamente sorvegliato in nome dello “stato d’eccezione” proclamato da governi tecnici emanati dalla dittatura eurocratica atlantista, sempre meno mascherata». Un potere che si esprime attraverso portavoce come Loukas Papademos della “Trilaterale”, uno dei massimi organi del super-governo del mondo, e come lo stesso Mario Monti, probabile successore di Berlusconi, in realtà esponente del Papandreou, Sarkozy e Merkelgruppo Bilderberg, santuario della finanza mondiale di cui fanno parte anche Herman Van Rompuy (Unione Europea) e persino il greco Papandreou.
«Di ogni leader bisognerebbe leggere attentamente la biografia e dunque non dimenticarsi mai delle sue origini», scrive Marcello Foa sul “Giornale”. «Prendiamo il premier Papandreou. E’ greco? Senza dubbio, ma solo a metà. Sua madre è americana e in America ha studiato. Niente di male, anzi, però bisogna sapere che negli ultimi vent’anni ha stabilito eccellenti rapporti con un certo establishment finanziario anglosassone. Viste le sue strane peripezie con l’annuncio di misure lacrime e sangue, poi la negazione di quanto fatto finora con la proclamazione di un referendum annunciato e infine l’annullamento dello stesso, Papandreu sta facendo gli interessi del popolo greco o risponde ad altre logiche e ad altri interessi?».
E prendiamo Mario Draghi, ex governatore della Banca d’Italia, ma anche ex vicepresidente di Goldman Sachs e, soprattutto, stimatissimo presidente del Financial Stability Forum: l’organismo che, «dallo scoppio della crisi del 2008, ha preservato gli interessi del mondo finanziario e in primis delle grandi banche che hanno provocato quella crisi e che sono state salvate». Domanda: chi rappresenta, davvero, Mario Draghi? L’Italia, l’Europa o il mondo finanziario transnazionale inorridito di fronte alla possibilità che il popolo greco si esprimesse con un referendum sul proprio futuro? «L’Europa – continua Foa – viene costruita sempre sopra le teste dei cittadini e prelevando di volta in volta pezzi crescenti di sovranità, naturalmente senza mai dichiararlo apertamente ma dissimulando le proprie intenzioni: l’Europa dell’euro, di Shenghen, di Maastricht, è un’Europa tendenzialmente non democratica». Dovremmo allarmarci, e Mario Draghiinvece «siamo così ipnotizzati dall’andamento dei mercati da non accorgercene nemmeno».
L’interesse dei poteri forti mondiali, aggiunge Felice Sardi, va in direzione diametralmente opposta a quella di un ritorno alla sovranità monetaria nazionale: prima hanno attaccato le discrezionalità delle politiche monetarie sovrane, poi – con l’euro – hanno soppresso la sovranità monetaria dei singoli Stati, perché «consapevoli dell’enorme potenziale di una politica monetaria correttamente “canalizzata” in attività di incremento della produttività del sistema economico». Ripetevano che il pericolo era l’inflazione? Ma l’effetto inflazionistico della creazione di moneta, sostiene Sardi, dipende dal modo in cui la nuova moneta viene impiegata: se è canalizzata verso consumi e investimenti finanziari si avrà inflazione sul mercato dei beni e quello dei capitali (bolle finanziarie), ma se invece la creazione di nuova moneta viene canalizzata in investimenti che migliorano la produttività complessiva del sistema (infrastrutture utili, educazione e ricerca) la maggiore quantità di moneta si distribuisce su un maggior numero di beni e servizi, senza il rischio di provocare inflazione.
Il debito pubblico di uno Stato a moneta sovrana non è mai un problema, sottolinea Paolo Barnard nel saggio “Il più grande crimine”, che denuncia un complotto mondiale dell’élite finanziaria: secondo Barnard, che si avvale della consulenza di prestigiosi economisti soprattutto anglosassoni, la crisi creata a tavolino serve soprattutto a favorire un colossale accumulo di capitali e poteri in pochissime mani, sempre più al riparo dal potenziale democratico di organismi statali ormai svuotati di ogni prerogativa, a cominciare dalla principale: la sovranità monetaria. Solo uno Stato sovrano – com’era l’Italia prima dell’euro – sarebbe «autorizzato a finanziare (con emissioni monetarie dirette o con garanzie statali) ogni progetto in grado di aumentare la produttività del sistema», ribadisce Felice Sardi. Solo lo Stato, attraverso la leva monetaria, può aumentare efficienza e occupazione: «Gli unici vincoli alla crescita dovrebbero essere quelli fisici delle risorse naturali e quelli tecnologici, ma mai economici».

martedì 8 novembre 2011

Il movimento del 99 per cento può cambiare il mondo

 di Ulrich Beck, da la Repubblica


Com'è possibile che un caldo autunno americano, sul modello della primavera araba, distrugga il credo dell' Occidente, cioè la visione economica dell' american way? Com' è possibile che il grido "Occupy Wall Street" raggiunga e trascini nelle piazze non soltanto i ragazzi di altre città americane, ma anche quelli di Londra, Vancouver, Bruxelles, Roma, Francoforte e Tokio? I contestatori non sono andati soltanto a far sentire la loro voce contro una cattiva legge o a sostenere qualche causa particolare: sono scesi in piazza a protestare contro "il sistema". Ciò che fino a non molto tempo fa veniva chiamato "libera economia di mercato" e che ora ricominciaa essere chiamato "capitalismo" viene portato sul banco degli accusati e sottoposto a una critica radicale. Perché il mondo è improvvisamente disposto a prestare ascolto, quando Occupy Wall Street rivendica di parlare a nome del 99% dei travolti contro l' 1% dei profittatori?

Sul sito web "WeAreThe99Percent" si possono leggere le esperienze personali di quel 99%: quelli che hanno perduto la casa nella crisi del settore immobiliare; quelli che costituiscono il nuovo precariato; quelli che non possono permettersi nessuna assicurazione contro le malattie; quelli che devono indebitarsi per poter studiare. Non i "superflui" (Zygmunt Bauman), non gli esclusi, non il proletariato, ma il centro della società protesta nelle pubbliche piazze. Questo delegittima e destabilizza "il sistema". Certo, il rischio finanziario globale non è (ancora) una catastrofe finanziaria globale. Ma potrebbe diventarlo.

Questo condizionale catastrofico è l' uragano abbattutosi nel mezzo delle istituzioni sociali e della vita quotidiana delle persone sotto forma di crisi finanziaria. È irregolare, non si muove sul terreno della costituzione e della democrazia, reca in sé la carica esplosiva di un fenomeno ancora in gran parte sconosciuto, anche se stentiamo ad ammetterlo, e che spazza via le nostre consuete coordinate orientative. Nello stesso tempo, in questo modo una sorta di comunità di destino diventa un' esperienza condivisa dal 99%. Ne possiamo cogliere il segno nei saliscendi repentini delle curve finanziarie, che con le loro montagne russe rendono immediatamente percepibile il legame tra i mondi. Se la Grecia affonda, è un nuovo segnale del fatto che la mia pensione in Germania non è più sicura? Cosa significa "bancarotta di Stato", per me?

Chi avrebbe immaginato che proprio le banche, così altezzose, avrebbero chiesto aiuto agli Stati squattrinati e che questi Stati dalle casse cronicamente vuote avrebbero messo in un batter d' occhio somme astronomiche a disposizione delle cattedrali del capitalismo? Oggi tutti pensano più o meno così. Ma questo non significa che qualcuno lo capisca. Questa anticipazione del rischio finanziario globale, che si fa sentire fin nei capillari della vita quotidiana, è una delle grandi forme di mobilitazione del XXI secolo. Infatti, questo genere di minaccia è ovunque percepito localmente come un evento cosmopolitico che produce un cortocircuito esistenziale tra la propria vita e la vita di tutti. Simili eventi collidono con la cornice concettuale e istituzionale entro cui abbiamo finora pensato la società e la politica, mettono in questione questa cornice dall' interno, ma nello stesso tempo chiamano in causa sfondi e presupposti culturali, economici e politici assai differenti; analogamente, la protesta globale si differenzia a livello locale.

Sotto il diktat dell' emergenza le persone fanno una specie di corso accelerato sulle contraddizioni del capitalismo finanziario nella società mondiale del rischio. I resoconti dei media fanno emergere la separazione radicale tra coloro che generano i rischi e ne traggono profitto e coloro che ne devono scontare le conseguenze. Nel Paese del capitalismo da predoni, gli Stati Uniti, sta prendendo forma un movimento di critica del capitalismo - ancora una volta, si tratta di un evento imprevedibile. Abbiamo detto "follia" quando è crollato il muro di Berlino. Abbiamo detto "follia" quando, il 9 settembre del 2001, le Twin Towers di New York si sono disfatte nella polvere. E abbiamo detto "follia" quando, con il fallimento di Lehman Brothers, è scoppiata la crisi finanziaria globale. Cosa significa "follia"? Anzitutto una conversione spettacolare: banchieri e manager, i fondamentalisti del mercato per antonomasia, fanno appello allo Stato. I politici, come in Germania Angela Merkel e Peer Steinbrück, che fino a non molto tempo fa esaltavano il capitalismo deregolato, dal giorno alla notte cambiano opinione e bandiera, e diventano fautori di una sorta di socialismo di Stato per ricchi. E ovunque regna il non-sapere. Nessuno sa cosa sia e quali effetti possa realmente produrre la terapia prescritta nella vertigine degli zeri.

Tutti noi - vale a dire il 99% - siamo parte di un esperimento economico in grande, che da un lato si muove nello spazio fittizio di un non-sapere più o meno inconfessato (si sa solo che, quali che siano i mezzi adottati e gli obiettivi perseguiti, bisogna impedire qualcosa che non deve in nessun modo accadere), ma, dall' altro, ha conseguenze durissime per tutti. Si possono distinguere diverse forme di rivoluzione: colpo di Stato, lotta di classe, resistenza civile ecc. I pericoli finanziari globali non sono nulla di tutto ciò, ma incarnano in modo politicamente esplosivo gli errori del capitalismo finanziario neoliberista che è stato ritenuto valido fino a ieri e che, con la violenza del suo trionfo e della catastrofe ora incombente, esige la loro presa d' atto e la loro correzione. Essi sono una sorta di ritorno collettivo del rimosso: alla sicurezza di sé neoliberista vengono rinfacciati i suoi errori di partenza.

Le crisi finanziarie globali, che minacciano in tutto il mondo le condizioni di vita delle persone, producono un nuovo genere di politicizzazioni "involontarie". Qui sta il loro bello - in senso politico e intellettuale. Globalità significa che tutti sono colpiti da questi rischi, e tutti si ritengono colpiti. Non si può dire che ciò abbia già dato origine a un agire comunitario; sarebbe una conclusione affrettata. Ma c' è qualcosa come una coscienza della crisi, che si nutre del rischio e rappresenta proprio questo tipo di minaccia comune, un nuovo genere di destino comune. La società mondale del rischio - questo mostra il grido del "99%" - può acquisire una consapevolezza matura di sé in un impulso cosmopolitico. Ciò sarebbe possibile se si riuscisse a trasformare la dimostrazione oggettiva di condizioni che si rivolgono contro sé stesse in un impegno politico, in un movimento Occupy globale, nel quale i travolti, i frustrati e gli affascinati, ossia tendenzialmente tutti, scendono in piazza, virtualmente o effettivamente.

Ma da dove nasce la forza o l' impotenza del movimento Occupy? Non può trattarsi soltanto del fatto che perfino gli squali di Borsa si dichiarano solidali. Il rischio finanziario globale e le sue conseguenze politiche e sociali hanno tolto legittimità al capitalismo neoliberista. La conseguenza è che c' è un paradosso tra potere e legittimità. Grande potere e scarsa legittimità da parte del capitale e degli Stati, e scarso potere ed alta legittimità da parte di quelli che protestano in modo pittoresco. È uno squilibrio che il movimento Occupy potrebbe sfruttare per avanzare alcune richieste basilari - come ad esempio una tassa globale sulle transazioni finanziarie - nell' interesse correttamente inteso degli Stati nazionali e contro le loro ottusità. Per applicare questa "Robin Hood Tax" si dovrebbe dar vita in modo esemplare ad un' alleanza legittima e potente tra i movimenti di protesta globalie la politica nazional-statale. Quest' ultima potrebbe così compiere il salto quantico consistente nella capacità degli attori statali di agire in una dimensione trans-statale, cioè al di qua e al di là delle frontiere nazionali. Se questa esigenza viene espressa perfino dalla cancelliera federale tedesca Angela Merkel e dal presidente francese Sarkozy perlomeno nella forma di un bello slogan, allora si può senz' altro accreditare a questo obiettivo una possibilità di realizzazione.

In termini generali, nella consapevolezza globale del rischio, nell' anticipazione della catastrofe che occorre impedire ad ogni costo, si apre un nuovo spazio politico. Nell' alleanza tra i movimenti di protesta globali e la politica nazional-statale ora si potrebbe ottenere, alla lunga, che non sia l' economia a dominare la democrazia, ma sia, al contrario, la democrazia a dominare l' economia. Contro la percezione - che sta diffondendosi rapidamente - di una mancanza di prospettive forse può aiutare la consapevolezza del fatto che i principali avversari dell' economia finanziaria globale non sono quelli che ora piantano le loro tende nelle pubbliche piazze di tutto il mondo, davanti alle cattedrali bancarie (per quanto importanti, anzi indispensabili siano le iniziative di questi contestatori); l' avversario più convincente e tenace dell' economia finanziaria globale è la stessa economia finanziaria globale.

(Traduzione di Carlo Sandrelli)

(4 novembre 2011)

La Rete Siciliane delle donne per la rivoluzione Gentile allo stato non intende prendere posizioni per i candidati a Sindaco di Palermo

In merito a quanto appreso da parte di alcuni componenti del movimento
della rete nazionale, sono costretta a smentire oltre che a dissentire: la Rete Siciliana non ha preso e non intende, allo stato, prendere posizione a sostegno di qualsivoglia candidato Sindaco alle prossime elezioni comunali di Palermo e pertanto chi lo ha fatto lo ha fatto solo a livello personale e/o scavalcando quelle che sono le esclusive prerogative delle Donne della Rete Siciliana.
Le donne dell'Associazione Della Rete Siciliana Per La Rivoluzione Gentile respingiamo, quindi, qualsiasi tentativo di colonizzazzione da parte di altri componenti della Rete Nazionale, rivendichiamo e difendiamo la nostra piena autonomia,  che ci viene anche dal nostro statuto!
 La presidente della rete Delle Donne Siciliane per la Rivoluzione Gentile
                                             Nella Toscano

domenica 6 novembre 2011

Il referendum italiano - Alberto Asor Rosa

In questo impressionante marasma di notizie, affermazioni, smentite,menzogne e contraddizioni, e nella valanga ininterrotta di avvenimenti vecchi e nuovi che ogni giorno si accumulano sulla stampa e nei media, è difficile seguire un ordine logico, è quasi impossibile avere sempre ben presente il quadro storico-politico complessivo.
Per me il punto di partenza di qualsiasi ragionamento resta il voto negativo della Camera dei deputati l'11 ottobre scorso sull'Art.1 del Rendiconto dello Stato presentato dal governo. Ne ho scritto sul manifesto del 23 ottobre e si può non essere d'accordo sulle conseguenze estreme che io avrei tratto sul piano della sopravvivenza del Governo da parte della Presidenza della Repubblica (e infatti non è stato d'accordo con me Gaetano Azzariti, il manifesto, 26 ottobre), ma non si può non convenire che quel voto avesse la perfetta equivalenza di un voto di sfiducia, difficilmente rimediabile sul piano costituzionale (come ha argomentato da par suo Gianni Ferrara, il manifesto, 25 ottobre).
Apprendiamo successivamente da un fondo di Eugenio Scalfari su la Repubblica (30 ottobre) che, dopo il voto di fiducia rimediato con i soliti mezzi da Berlusconi, il 14 ottobre, per porre margine (?) allo sfascio potenziale conseguente al voto contrario sull'Art.1 del Rendiconto dello Stato, in una riunione dei capigruppo alla Camera dei deputati era stato deciso all'unanimità (ripeto: all'unanimità) di calendarizzare per l'8 novembre il ritorno alla Camera del Rendiconto, per l'eventuale approvazione, magari con un altro voto di fiducia.
In questa apparentemente modesta notizia ci sono invece due stranezze, di diseguale rilevanza. La prima è che Eugenio Scalfari è un grande editorialista ma non certo un cronista politico quotidiano. Ebbene, la conoscenza del fatto, - che tutti i gruppi parlamentari, opposizione compresa, avevano accettato il ritorno in aula alla Camera del Rendiconto, nonostante le obiezioni costituzionali di cui sopra - ci è pervenuta da un suo editoriale: la grande stampa d'informazione non lo ha sottolineato come rilevante.
La seconda è il fatto in sé: anche i gruppi parlamentari di opposizione hanno rinunciato, nessuno escluso, a esercitare il loro diritto di opposi alla disapplicazione dell'art.72 del Regolamento della Camera, il quale prescrive il divieto a ripresentare la stessa legge già bocciata prima che siano trascorsi sei mesi. Bastava che uno di loro lo facesse per rendere inapplicabile la misura invocata dal Governo, ed evidentemente nessuno lo ha fatto. C'è da chiedersi in che mani siano riposte le nostre speranze di cambiamento. Non sono il solo a chiedermelo: in un articolo conciso ed efficace come una staffilata (La Repubblica, 31 ottobre) Alessandro Pace spiega come «le opposizioni non si siano rese conto di essere andate al di là dei loro poteri, e di avere, con il loro beneplacito, creato un gravissimo precedente incostituzionale che si ritorcerà a loro danno, grazie alla disinvoltura costituzionale del governo in carica». Naturalmente è auspicabile che l'8 novembre la Camera dei deputati ponga fine a questa inverosimile commedia, bocciando per la seconda volta il Rendiconto, ma questo non cancellerebbe le contorsioni politico-istituzionali attraverso le quali si perverrebbe, del tutto gratuitamente, a questa ultima, definitiva (?) scelta.
Veniamo a noi. Tutto quello che è avvenuto successivamente a quell'11 ottobre (la delineazione, farraginosa e inconcludente, di un piano per affrontare la crisi, le trattative, vergognose per noi, con i Grandi d'Europa, la messa sotto tutela della linea di politica economica nazionale, ecc. ecc.), è stato opera di un governo che, costituzionalmente, sarebbe dovuto uscire di scena già da un bel po': il che fra l'altro ne spiega la palese, vergognosa, debolezza. Su tutto questo, lasciato passare di straforo, come ho detto, quasi a nessuno importasse, è precipitata la valanga della crisi economica. Ma anche su questo qualcosa da dire (o da obiettare) c'è.
Si sarebbe potuto pensare che Silvio Berlusconi sarebbe stato sbalzato di sella per i suoi innumerevoli e innominabili vizi privati, o per le infinite inchieste giudiziarie, o per le menzogne pronunciate in pubblico anche nella veste di Presidente del Consiglio, o per la sua alleanza con una forza separatista come la Lega o per la più volte comprovata incapacità a risollevare il paese dalla crisi non meno ideale che economica in cui lui stesso l'ha fatto cadere. No: la sua sopravvivenza come premier è tuttora legata alla sua disponibilità/capacità di garantire in Italia l'applicazione dei diktat europei. E l'alternativa al suo governo, ciò di cui attualmente si discute, è rappresentata da un governo tecnico e/o di transizione che, pescando nei fondi di barile di questo screditatissimo Parlamento, faccia quello che Berlusconi potrebbe non esser più in grado di fare. Ai vari vulnus costituzionali, di cui la nostra storia recente è, come ho cercato di argomentare, costellata, si sovrapporrebbe così il pannicello caldo di un'obbedienza più dignitosa e di conseguenza più certa e sicura al verbo merkel-sarkozyano che attualmente ci governa.
Su quest'ultimo punto ci sarà tempo e modo di tornare. Basti dire per ora sinteticamente (ma non ironicamente) che l'Italia non conosceva uno così straripante predominio dello straniero all'interno dei suoi confini naturali (dello straniero, sì, non dell'Europa, perché l'Europa ha preso per ora, il volto dello straniero) dai tempi delle settecentesche guerre di successione (peggio, ora: almeno allora c'era il modesto bastione sabaudo-piemontese a tenere accesa una fiammella). Cambiano i modi, certo, il capitale finanziario ha sostituito gli eserciti, ma la sostanza è la stessa. Insieme con la crisi costituzionale bisogna dunque far fronte a una crisi identitaria, ancora una volta economica e culturale (e forse fra «crisi economica» e «crisi culturale» bisognerà riconoscere che ci sono più reciproci condizionamenti di quanto non appaia a prima vista).
Sere fa, assistendo (del tutto casualmente, s'intende) a una trasmissione di Porta a Porta, ho ascoltato un nostro rappresentante, Pietro Ichino, dichiarare che ormai non era più questione di destra e di sinistra, ma di sapere e volere applicare, oppure no, le misure richiesteci dall'Europa. Lì per lì ho pensato che Ichino, come gli capita, estremizzasse. Poi sono arrivato alla conclusione che avesse ragione e che in effetti la spaccatura di fondo, indipendentemente dagli schieramenti politici e ideali (o pseudoideali) passi fra chi pensa che governare l'Italia consista nell'applicare sic et simpliciter la ricetta europea (farsi commissariare fino in fondo e bene, non poco e maldestramente come ormai sono solo capaci di fare Berlusconi e il suo governo), oppure riconquistare rapidamente tutti i margini d'iniziativa politica, economica e culturale che ci competono, nel contestuale, rinnovato rispetto del dettato costituzionale.
Non è possibile? Non c'è altra strada che l'obbedienza cieca e assoluta? Non esiste una terza possibilità capace di mediare fra il comando brutalmente economico e le esigenza di sopravvivenza e di democrazia politico-sociale del popolo italiano? Bene, vorremmo che qualcuno responsabilmente ce lo dicesse prima di chiederci fiducia a condividere e sostenere l'ardua impresa. Per questo qualsiasi governo tecnico e/o di transizione, espresso da questo Parlamento, non va bene, è un rimedio peggiore del male, non può che peggiorare le cose. Se è vero quel che Ichino dice, e molti pensano e lavorano per realizzare, bisogna che i partiti, le forze politiche, i movimenti e i tecnici ce lo vengano a dire prima. Prima di che? Prima del voto, ovviamente. Qualsiasi sia la strada da scegliere e da battere, bisogna che gli schieramenti siano visibili prima, che i nostri programmi siano formulati prima, che i politici (i nostri futuri rappresentanti) ci dicano prima i prezzi e i vantaggi. Questo è il nostro referendum, il referendum italiano. Chi preferisce rinunciarvi, lavora perché dalla crisi veramente non si esca, perché l'Italia e gli Italiani non siano i soggetti consapevoli del cambiamento. E noi questo non possiamo più permettercelo.

venerdì 4 novembre 2011

Barnard: perderemo tutto, la Bce vuole il nostro sangue


 Scritto il 31/10/11 • nella Categoria: idee                        La lettera che il governo Berlusconi ha consegnato all’Unione Europea significa una sola cosa: «Che l’Italia si deve piegare al volere dei mercati». Dopo un lungo silenzio, Paolo Barnard torna a farsi sentire attraverso il suo dirompente sito web, dal quale lanciò “Il più grande crimine”, saggio sulfureo sulle vere cause dell’attuale crisi: la resa della politica ai predoni della finanza mondiale, attraverso un’inesorabile processo di privatizzazione perfezionato negli anni ’80 da Reagan e dalla Thatcher con la complicità di Kohl e Mitterrand e sviluppato in Italia da uomini come Ciampi e Prodi, fino al capolavoro assoluto: un’Unione Europea non democratica, retta da una Commissione di non-eletti e incentrata sull’euro, moneta comune ma privata, che la Bce “presta” agli Stati membri ad elevato tasso d’interesse.

«Non abbiamo più alcuna sovranità politica», dice Barnard, a causa di convenzioni europee come il Trattato di Lisbona, «che ci impongono regole disperazionedecise da tecnocrati pro-business non eletti», e siamo ridotti a non disporre più di alcuna sovranità finanziaria, «visto che non abbiamo più una nostra moneta sovrana, ma usiamo l’Euro che è una moneta straniera, dal momento in cui è emesso da entità non italiane e lo dobbiamo prendere in prestito». In altre parole, quello che ci tocca fare è «solo ubbidire e applicare le politiche volute da altri». Ma attenzione, avverte Barnard: la lettera che il governo italiano ha consegnato a Bruxelles non è destinata all’Unione Europea, bensì ai veri padroni del mondo: vale a dire «gli investitori internazionali, quelli che oggi prestano ogni singolo Euro che lo Stato italiano spende per i cittadini».
E chi sono i poteri che “ricattano” 60 milioni di italiani? «Si tratta di gruppi assicurativi, fondi pensione privati, fondi sovrani stranieri, banche d’investimento o singoli grandi investitori. Cioè i padroni delle finanze di quasi tutti gli Stati del mondo». Fanno pressione in modo ormai scoperto: «Per continuare a prestarci i soldi esigono regole che glieli facciano fruttare al massimo: se quelle regole distruggono le persone non ha per loro nessuna importanza; se distruggono intere economie neppure, anzi, ci guadagnano, come spiegato ne “Il Più Grande Crimine”», dirompente inchiesta che – facendo nomi e cognomi – con l’aiuto di prestigiosi economisti, soprattutto americani, ricostruisce il lungo processo col quale oggi facciamo i conti: la storica “riscossa” dell’antica élite monarchica e terriera, colpita nel ‘900 dal progresso planetario delle democrazie popolari (lavoro, diritti, welfare) e pronta oggi a “riprendersi tutto” grazie alla micidiale leva dell’alta finanza, a cui gli Stati si sono arresi, Mario Draghicome dimostra la drammatica vertenza Italia-Bce.
Chi ha scritto quell’impegnativa nella quale il nostro paese promette di cedere al diktat della Banca centrale europea? La lettera non è stata certamente vergata da Berlusconi, «che non ha potere alcuno in questa storia», scrive Barnard. «E’ stata scritta dai tecnocrati del governo sotto dettatura dei loro omologhi nella Ue, gente come Draghi, Buti o Bini Smaghi». Per l’autore de “Il più grande crimine”, storico collaboratore di Santoro e poi tra i fondatori di “Report” con Milena Gabanelli, in questo caso «il governo non aveva scelta: o rispondere agli ordini oppure all’Italia veniva chiuso il rubinetto delle finanze, e moriva». Dal momento in cui si è tolto allo Stato il potere di creare ricchezza spendendo a deficit per i cittadini, sostiene Barnard, questo potere è passato nelle mani esclusive degli investitori: «Quindi ci possiedono al 100%. Punto».
Cosa cercano gli investitori finanziari in quel testo? «Lo leggono rapidi, saltando tutte le insignificanti rassicurazioni e i dettagli della nostra gestione interna, e vanno a cercare se l’Italia ha incluso nel testo due capitoli e solo quelli». Primo: regole per strangolare ulteriormente la spesa dello Stato per i cittadini. Secondo: regole per favorire il loro lucro se investono o speculano qui da noi. «A patto che questi due capitoli siano soddisfacenti per loro, ci presteranno gli Euro per sopravvivere. Altrimenti ci dissangueranno fino alle estreme conseguenze». E li hanno trovati, quei due indignati italianicapitoli-capestro, nel testo consegnato a Bruxelles? Purtroppo sì, risponde Barnard. Il piano procede, ed è contro di noi in ogni aspetto della spesa sociale: salari, pensioni, tasse, spesa pubblica, licenziamenti facili, lavoro ancora più precario.
Capitolo “strangolare la spesa dello Stato per i cittadini”: primo, in Italia si renderà effettiva – con meccanismi sanzionatori – la mobilità obbligatoria dei dipendenti pubblici sia statali che locali: li si metterà in cassa integrazione con abbassamento complessivo dei salari. Poi compare la riforma costituzionale per rendere illegale la spesa a deficit dello Stato («l’unica che invece crea ricchezza al netto per i cittadini e aziende»). Terzo, l’innalzamento dell’età pensionabile: e non solo ai 67 anni, ma con l’obiettivo di tenere in considerazione nel futuro anche l’aspettativa di vita del lavoratore come parametro per l’entrata in pensione («come chiesto nel 2010 da due lobby finanziarie europee, la Ert e la Be»). Quarto: se le misure non saranno sufficienti, lo Stato tasserà di più i cittadini, «quindi il rapporto fra ciò che spende per loro e ciò che gli sottrae si alzerà ancora a favore di meno spesa e più prelievo». Quinto: «I risparmi ottenuti dai tagli della spesa dello Stato non potranno essere utilizzati per spendere a favore dei cittadini».
Poi c’è il capitolo “favorire il loro lucro se investono o speculano qui da noi”. In Italia si introducono i prestiti d’onore agli studenti: ovvero, come «incastrare il cittadino fin dalla più giovane età nel sistema finanziario che gli speculatori controllano e da cui guadagnano». Secondo punto: ulteriore flessibilità del lavoro, coi contratti di apprendistato, a tempo parziale e di inserimento. «Cioè, là dove il lavoratore anziano crollerà morto di produttività sul posto di lavoro, le mega aziende assumeranno a due centesimi giovani sostituti senza tutele e sprovveduti». Terzo: più facilità nei licenziamenti anche dei lavoratori a tempo indeterminato, «che potranno perdere il lavoro anche a causa di un calo di introiti aziendali». Quarto aspetto, le privatizzazioni statali in accelerazione: «Liberalizzazione e privatizzazione dei servizi pubblici locali», alla faccia dei referendum di giugno: ribadito il settore acqua, poi farmacie comunali, rifiuti, trasporti. «Il Comune non potrà affidare un Paolo Barnard servizio senza aver prima verificato se era possibile aprire una gara fra soggetti privati», mentre le Regioni «dovranno stilare piani urgenti di privatizzazioni locali». E infine, la Costituzione: «Sarà riformata per introdurre articoli pro business. Le conseguenze sulle tutele costituzionali del bene pubblico sono imprevedibili (no, prevedibili: le distruggeranno)».
Abbiamo accontentato i nuovi “padroni veri” dell’Italia? Macché. «Le misure sono state giudicate insufficienti», osserva Barnard. «Berlusconi, o chi per lui, non ha saputo essere sufficientemente thatcheriano, prodiano, adreattiano o dalemiano: non ha saputo cioè usare la falce della distruzione della democrazia e del bene pubblico italiano come in decadi scorse seppero fare i personaggi citati». Risultato: «I mercati degli investitori ci hanno di nuovo aumentato i tassi d’interesse sugli Euro che ci prestano a oltre il 6%. Cioè: i nostri padroni hanno risposto che non solo non ci ridurranno il costo che paghiamo per prendere in prestito gli Euro, ma ce l’hanno aumentato. Ci hanno detto: “No! Volevamo lucrare di più, dovevate falcidiare la gente di più. Ora pagate”. E pagheremo, fino alla fine».
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